La casa delle madri
- Autore: Daniele Petruccioli
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2020
Conoscere una casa vuol dire conoscere la testa di una persona, quella di un’intera famiglia e quella di un intero mondo – e capire quale sia l’idea alla base del mondo in questione. Conoscere una casa è quasi il contrario di visitarla, di vederla, di sentirne parlare. Conoscere una casa significa accogliere le mutazioni e le interazioni, e smettere intanto di inseguire un’idea di compostezza o di perfezione. Ne è ben consapevole Daniele Petruccioli, autorevole traduttore che nell’ottobre 2020 ha pubblicato il suo esordio nella narrativa, La casa delle madri, con TerraRossa Edizioni, all’interno della collana Sperimentali.
Coniugando magistralmente la solidità narrativa e l’originalità stilistica con cui la casa editrice stessa definisce le opere ospitate in questo contenitore letterario, l’autore restituisce infatti l’immagine dinamica di una casa in cui fin dalla copertina si suggerisce la presenza di più generazioni appartenenti a nuclei familiari diversi, tutte presenti presto o tardi, insieme o in momenti separati, nello stesso spazio labirintico, cangiante, capace di mettere in comunicazione chi la abita con la stessa facilità con cui ne potrebbe sfilacciare le relazioni più intime.
Per questo motivo, probabilmente, la consistenza della narrazione è densa, introspettiva, sospesa: non ricerca a nessun costo l’immediatezza o la velocità, nel tentativo di evocare senza scorciatoie la complessità della convivenza, l’ampiezza di certi universi interiori, o anche solo la meraviglia dell’ascolto calmo e profondo. Per di più, in una sapiente danza di aggettivi e di subordinate, i piani dell’intreccio si accavallano per quasi trecento pagine, definendo con elegante esattezza il profilo di una storia in cui lo spazio è una costante e l’unica variabile risulta essere proprio il tempo:
“La casa è divisa in due. I morti si aggirano per camere scomparse, facendo inciampare i vivi in cose che non dovrebbero stare dove stanno. Famiglie di vivi che non si conoscono (a volte non si sono mai visti, perché i loro appartamenti insistono su condomini ormai separati; altre volte si incrociano appena per un saluto sbrigativo sul pianerottolo, un silenzio imbarazzato in ascensore) condividono senza saperlo schiere di morti che non hanno nessuna contezza di compravendite, frazionamenti, divisioni, e continuano ad attraversare gli spazi (non sempre, e in modo comunque discontinuo: anche i morti hanno un loro modo di viaggiare, nello spazio e forse anche nel tempo, di cui nulla sappiamo e che li porteranno a visitare altri posti, altri momenti, luoghi dove impigliarsi in tracce di memorie ancora conservate), continuano a spostarsi attraverso planimetrie ormai cancellate dai registri ma condivise in ricordi e nostalgie di chi non c’è più, e a volte anche di chi c’è ancora.” (p. 183)
In altre parole, leggere La casa delle madri non è molto diverso dal concedersi una passeggiata carica di significati e costellata di silenzi, o a un’esplorazione in cui i dialoghi sono quasi inesistenti e l’occhio di un narratore onnisciente riesce a mettere a fuoco, in maniera volutamente disordinata, gli stati d’animo, le idiosincrasie e le debolezze di ogni personaggio dell’opera. I quattro che ritornano più spesso, quasi a creare una sorta di albero genealogico essenziale della casa in cui vivono, sono Sarabanda e Speedy, insieme ai loro figli gemelli Ernesto ed Elia. Su di loro si impernia lo sviluppo della storia, definibile quasi con gli stessi connotati di un fiume.
Se, infatti, da una parte sono ben chiari gli argini entro cui si muovono, perché è la casa la pietra miliare della loro esistenza, il movente più consueto delle loro azioni, il palcoscenico con la migliore cassa di risonanza per i loro rapporti interpersonali, dall’altra parte i contorni della loro personalità appaiono inafferrabili e sempre in divenire, troppo preda delle riflessioni sulla vita per forgiarsi con fermezza in un ipotetico passaggio dall’adolescenza all’età adulta. La bellezza e la maturità di un esperimento narrativo simile, dopotutto, stanno proprio in questo ritratto impalpabile della psiche umana, in questo collage di punti di vista e di momenti, in questa allegoria della casa come essere vivente e senziente, che partecipa e a tratti governa degli individui altrimenti in balia del caos, schiacciati dal peso del tempo e sempre sul punto di rinunciare a esistere, pur di non attraversare certe paure.
Il debutto di Daniele Petruccioli nel panorama contemporaneo costituisce, quindi, una tappa imprescindibile per capire il presente, perché si interroga sui luoghi da cui veniamo e da cui scappiamo: partire dai muri incrostati di una stanza o dal praticello davanti all’ingresso che presto verrà pavimentato è l’espediente per ragionare su diverse e ben più intricate stratificazioni umane, o per alludere ai disastri di una tempesta senza mai nominarli davvero. Un romanzo a cavallo tra il tempo e il non-tempo, tra lo spazio e il suo contrario, in cui il gioco di specchi tra interno ed esterno, detto e non detto, ricordato e scordato, concreto e astratto è insieme poetico e funzionale a ragionare sulla nostra permanenza sulla Terra con il linguaggio scosceso che ha caratterizzato i più raffinati scrittori europei del secondo Novecento.
“Noi crediamo di legarci a relazioni, sentimenti, persone; ma siamo molto più legati ai luoghi e agli oggetti che hanno accolto noi, e queste persone, coi sentimenti che ci siamo suscitati a vicenda e le relazioni che abbiamo intessuto. Sono i luoghi e gli oggetti (i corpi, i corpi puri e semplici), con la loro malleabilità, la loro possibilità di essere toccati, la capacità di adattarsi, a raccontarci di quelle relazioni, di quelle persone e dei nostri sentimenti verso di loro: a dirci, cioè, di noi.” (p. 192)
La casa delle madri
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