Prima della scrittura in prosa, per Primo Levi venne la poesia. Dopo la liberazione dal lager di Auschwitz, nel 1945, Levi aveva raccolto un buon materiale di opere in versi, scritte sin dall’età giovanile.
Nel 1970 pubblicò per la prima volta le sue poesie in forma privata in un volumetto stampato con una copertina di cartone, priva di titolo, in una tiratura limitata di appena trecento copie.
Cinque anni più tardi, l’autore di Se questo è un uomo, decise di affidarsi a un piccolo e prestigioso editore milanese Vanni Scheiwiller. Uscì così per la casa editrice All’insegna del Pesce d’oro la prima raccolta poetica di Primo Levi, dal titolo L’osteria di Brema, contenente ventisette testi. La data del “finito di stampare” era l’anniversario della Liberazione: il 25 aprile 1975.
La prima poesia di apertura in quella raccolta era Crescenzago, datata 1943. Ogni poesia di Levi riporta in calce la data in cui è stata scritta, vale anche per L’approdo, datata 10 settembre 1964, una delle poesie più celebri contenute nella raccolta L’osteria di Brema. Si tratta di una delle liriche maggiormente significative di Primo Levi, che invitano anche a rivalutare l’autore e il suo rapporto con l’oscurità della vita. Levi non era un autore necessariamente tragico, anzi, ne L’approdo celebra una sorta di visione di felicità che si condensa proprio nell’immagine dell’osteria di Brema, ereditata dal poeta tedesco Heine.
Felice è l’uomo che siede a bere all’osteria di Brema, lasciandosi dietro mari e tempeste, mettendo a tacere la pena del vivere. Ecco che l’immagine dell’osteria situata nella cittadina tedesca, sulle rive della Weser, si traduce nella metafora “porto sicuro”, della felicità raggiunta.
“L’approdo” di Primo Levi: testo
Felice l’uomo che ha raggiunto il porto,
che lascia dietro di sé mari e tempeste,
i cui sogni sono morti o mai nati,
e siede a bere all’osteria di Brema,
presso al camino, ed ha buona pace.Felice l’uomo come una fiamma spenta,
felice l’uomo come sabbia d’estuario,
che ha deposto il carico e si è tersa la fronte,
e riposa al margine del cammino.Non teme né spera né aspetta,
ma guarda fisso il sole che tramonta.10 settembre 1964
“L’approdo” di Primo Levi: analisi e commento
Non sarebbe scorretto definire L’approdo di Primo Levi come una poesia sulla felicità. Una felicità che per Levi si traduce in “salvezza”, da qui il riferimento iniziale al marinaio che, dopo aver vagato a lungo per mari in tempesta, raggiunge finalmente la terraferma.
La felicità viene descritta in maniera pacificante, rasserenante, identificandosi con lo stato d’animo di chi non aspetta più nulla di nuovo dalla vita e più non spera. In questa “mancanza di speranza”, però, intuiamo anche una nota sinistra che stride fortemente con l’inno alla gioia che viene inizialmente presentato. L’uomo felice cantato da Levi nella seconda strofa è una “fiamma spenta”, non ha nulla di vitale né di gioioso.
Probabilmente con questo stato d’animo, contrassegnato anche da una profonda stanchezza mentale e fisica, Primo Levi era uscito dal lager di Auschwitz: si sentiva come un uomo che aveva appena deposto un pesante fardello e ora finalmente poteva sedersi a riposare.
C’è un aneddoto curioso a proposito della poesia L’approdo: si tratta di una parziale riscrittura e traduzione dell’opera del poeta tedesco Heinrich Heine. Non è la prima volta che Levi mescola la propria scrittura ai testi altrui, creando una lirica originale, una tendenza che si manifesta soprattutto nelle prime poesie. In questo caso, però, Primo Levi riprende gli elementi chiave della poesia di Heine - l’osteria di Brema, il sole, il vino, il porto raggiunto - ma nel finale li ribalta in una visione malinconica.
Mentre l’uomo cantato da Heine osservava compiaciuto il riflesso del sole nel suo bicchiere di vino, ecco che l’uomo di Primo Levi “guarda fisso il sole che tramonta”. In questa immagine finale - che a ben vedere di felice ha ben poco - possiamo cogliere lo stato d’animo dei “sopravvissuti”, di quelli che Levi nel suo libro autobiografico definiva: i Musulmänner, ovvero “I sommersi”. Sono uomini prostrati dalla sofferenza, si è spenta in loro persino la scintilla del divino. Intuiamo che anche Primo Levi è uno di loro, proprio ora che si identifica nella condizione di chi “non aspetta e non spera”.
Al contrario di Heine che descriveva anche la felice condizione dell’ubriachezza, ben espressa nei versi:
Ah, come il mondo è affascinante e piacevole
nel riflesso di un buon bicchiere di vino!
Ecco che Primo Levi tenta una disamina più profonda del concetto di felicità: così come l’uomo ubriaco è allegro, perché il vino ottunde i suoi sensi, anche l’uomo felice deve essere posto nella medesima condizione di “quiete” e dunque nell’assenza di speranza e di desiderio. Forse proprio in questa assenza momentanea di altri desideri e bisogni e necessità risiede davvero l’arte della gioia; ma è la stessa ragione per cui la felicità è un sogno fugace, non è mai uno stato d’animo duraturo. Levi identifica la felicità con l’approdo, con il raggiungimento di un porto e non con la febbre del viaggiatore che ha l’ansia di inseguire nuove mete, scoprire nuovi luoghi. È una visione tutto sommato pacificante, ma al contempo pervasa da un sinistro pessimismo: felice è l’uomo che non ha sogni, o i cui “sogni sono non nati”, ci dice Primo Levi. Una visione epicurea: Epicuro, del resto, ci insegna che il vero piacere è l’assenza di dolore, che la felicità si lega allo stato d’animo di quiete, di imperturbabilità; l’uomo felice non è agitato da sogni o passioni.
Felice è l’uomo che non ha sogni, dunque? Quel che è certo è che, dopo aver letto questa poesia, ciascuno di noi vorrebbe sedersi, almeno per un attimo, all’osteria di Brema. È una conclusione malinconica, ma al contempo rasserenante, che sembra riprodurre - in parole - il gesto di chi beve un bicchiere di vino cercando una consolazione o, forse, un sollievo momentaneo, un poco di riposo. Ecco, in quest’immagine dell’uomo che riposa - non attende, non spera - è contenuta la prospettiva più semplice, minuta, spicciola di felicità.
Una felicità che troppo spesso scordiamo e annulliamo nella frenesia continua dei buoni propositi, dei desideri, delle conquiste, per giungere poi a che cosa? Levi ci dice che è felice l’uomo che ha raggiunto l’approdo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “L’approdo”: la poesia di Primo Levi sul concetto di felicità
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