Il Natale, prima o poi, assume la forma di tutte le nostre mancanze. Nella poesia di Nazim Hikmet, L’albero di Natale, ha l’aspetto di una palla di vetro rosso nella quale danza la figura della donna amata, come un’illusione tangibile, il più desiderabile dei doni.
La poesia, contenuta nella celebre raccolta Poesie d’amore (1963), si apre con l’indicazione di un luogo e di una data, un altro punto da segnare nella vasta mappa dell’esilio di Hikmet: Tallin, dicembre 1961. Il poeta turco in quel Natale si trovava nella capitale dell’Estonia, all’epoca una delle repubbliche socialiste sovietiche, quando è colpito - e in parte commosso - dalla visione di un albero addobbato a festa. Gli alberi, come sappiamo, sono una costante nella poesia di Hikmet e hanno sempre un significato vitale: “c’è un albero dentro di me, trapiantato dal sole”, scriveva l’autore; e ancora “a settant’anni pianterai degli ulivi (...) perché non crederai alla morte, pur temendola”. Hikmet è il poeta che ci ha insegnato a piantare degli ulivi e a sperare di vederli fiorire. Il suo albero di Natale scintillante, pagliuzzato d’oro, sprigiona la stessa inestinguibile energia vitale, illuminando l’oscurità della piazza, tra le oscure torri gotiche, gettando bagliori di luce sulla neve gelata. La visione dell’albero addobbato sembra sciogliere anche il gelo del cuore del poeta, chiuso nel suo esilio.
Ancora una volta Hikmet canta la nostalgia della patria perduta che assume le sembianze di una donna, la sua ultima moglie Vera Tulyakova, rimasta a Mosca. La vede riflessa in una delle palle di vetro rosso che adornano l’abete, in una sorta di illusione volontaria, in uno sforzo di immaginazione che intende colmare le lacune della mancanza. La decorazione natalizia diventa quindi simbolo di un’assenza, ma anche il sintomo acceso di un desiderio.
Scopriamo testo, analisi e commento alla poesia.
“L’albero di Natale” di Nazim Hikmet: testo
A sud del golfo di Finlandia la notte
vicino al mare brumoso
l’albero di Natale scintilla
tra oscure torri gotiche
corazze di cavalieri teutoni
e ciminiere di fabbriche
l’albero di Natale
l’albero di Natale canta
sulla piazza bianca di neve
canzoni dell’Estonia
lunghissimo scintillante
pagliuzzato d’oro
l’albero di Natale
tu sei nella palla di vetro rosso
i tuoi capelli son paglia gialla le ciglia azzurre
sono io che l’ho appesa
mettendotici dentro
il tuo collo bianco è lungo e rotondo
ti ho messa nella palla di vetro rosso
con i miei dubbi
con le mie ansietà con le mie parole
le mie speranze le mie carezze
a tutti gli alberi di Natale a tutti gli alberi
a tutti i balconi le finestre i chiodi le nostalgie
ho appeso la palla di vetro rosso
mettendotici dentro
perdonami,
moriro lì.L’Estonia è lo stato socialista più piccolo
il paese dove si leggono più poesie a testa
dove si beve più vodka
il più pieno di automobili e motociclette
celebre per le sue pellicce e i suoi mobili
per il suo coro di trentamila personenon posso guardare negli occhi chi giace
sul suo letto di morte
mi sembra una vergogna vivere
con uno che agonizza
al mio fianco
Lucia sta morendo in un ospedale di Mosca
Viale degli Entusiasti
non so più che numero
il suo viso somiglia a un vecchio cucchiaio di legno
il buio della sera si mescola
alla neve che fonde
i camion passano uno dietro l’altro
scuotendo l’asfalto
è la tristezza che emana Lucia
che mi fa corrugare la fronte
oppure è l’avvicinarsi
della mia propria morte non sol’albero di Natale canta
su una piazza bianca di neve
canzoni dell’Estonia
lunghissimo scintillante
pagliuzzato d’oro
perdonami
morirò lasciandoti nella palla di vetro rosso
in questo mondo vive una cosa unica
che non ha pari
me ne accorgo io soltanto
forse una pianta una bestia una parola un metallo
un raggio una gioia forse
forse caduta da una stella
in questo mondo vive una cosa vive per te
ma tu non te ne accorgi
morirò perdonami morirò
e tu uscirai spezzandola
dalla palla di vetro rosso
scenderai su una piazza
bianca di neve
sarà forse a Mosca o a Tallin
o a Leningrado
che da un albero di Natale
scenderai su una piazza
bianca di neve
ma io
avrò portato via con me
ciò che vive per te in questo mondoLucia muore
il viso come un vecchio cucchiaio di legno
è assurdo quelli che dovrebbero
morire dopo di me
muoiono prima di me
dopo le grandi guerre la morte ha perso la testa
completamente
i camion passano scuotendo l’asfalto
del Viale degli Entusiasti
sui manifesti le cifre dell’anno ’65
carbone tante tonnellate
petrolio tanto
tessuti tanti chilometri
su una piazza bianca di neve
l’albero di Natale canta
canzoni dell’Estonia
tra oscure torri gotiche
e ciminiere di fabbriche.(Traduzione di Joyce Lussu)
“L’albero di Natale” di Nazim Hikmet: analisi e commento
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Il Natale di Hikmet ha uno scintillio malinconico, come quell’albero nella piazza di Tallin e il suono struggente dei canti dei ragazzi dell’Estonia in una buia notte di gelo. Possiamo quasi vederlo Nazim Hikmet, mentre cammina pensoso attorno a quell’albero di Natale maestoso e illuminato, gli occhi velati di lacrime nel ricordo della patria lontana e delle amicizie, degli amori perduti. Ogni decorazione di quell’abete si trasfigura in una mancanza che gli lacera l’anima. Pensa a Vera, che vede riflessa con i suoi capelli d’oro in ogni palla di vetro rosso come in una sfera di cristallo; pensa a Lucia, che ora sta morendo sola in un ospedale di Mosca. L’atmosfera gioiosa del Natale in questi versi si trasfonde in un canto struggente, malinconico, che condensa assieme amore e morte, tutta la dolcezza e tutta l’amarezza della vita.
In fondo Hikmet sembra parlarci ancora dell’ulivo, adesso trasfigurato nell’albero di Natale, un simbolo di vita, un simbolo di pace che scintilla nella notte più magica e fredda dell’anno, cantando in una piazza bianca di neve.
In questa lirica intrisa di malinconia ritroviamo tutti i temi cardine della poesia di Hikmet: l’esilio, l’amore, la morte, la speranza e la Storia che fa capolino nella vita ordinaria delle persone comuni segnandone il destino. Quest’albero di Natale che luccica nella piazza innevata di Tallin ci commuove intimamente, poiché ci appare come una maniera simbolica di affermare la vita nonostante tutto, a dispetto di tutto.
Hikmet contrappone le luci vivaci della festa alla morte di Lucia, che sta agonizzando sola in un ospedale di Mosca; e la sua morte, la morte di questa singola persona sconosciuta, ci appare ancora più inaccettabile e ingiusta alla luce di questo grande albero adornato che splende cantando la vita. Non manca neppure un riferimento alle “grandi guerre” a causa delle quali, dice il poeta, “la morte ha perso la testa”. Siamo negli anni Sessanta, le due Guerre mondiali sono ormai lontane e ci troviamo immersi in un clima di piena Guerra fredda che Hikmet restituisce appieno attraverso questa poesia malinconica, capace di riflettere una situazione di stallo, una sorta di limbo dell’anima.
Colpisce in particolar modo il contrasto insistito, quasi voluto, tra Lucia che muore e il luogo in cui è collocata topograficamente la sua morte: l’ospedale situato in Viale degli Entusiasti. Può esserci entusiasmo nella morte? Sembra una beffa, e forse lo è - Hikmet ironizza, ma non troppo, sulle discordanze insite nella vita, sulla contraddizione in termini che è l’esistenza stessa.
Cammina lento in un mondo “che ha perso la testa” e l’immagine di quell’albero di Natale illuminato diventa qualcosa cui aggrapparsi come una certezza, come una speranza, come il ricordo di Vera Tulyakova che danza evanescente in una palla di vetro rosso. L’amore vicino, eppure irraggiungibile, è il costante tormento del poeta che in questi versi si dilata comprendendo un sentire più vasto. L’amore è ciò che ci sopravvive, sembra concludere Hikmet, immaginando Vera uscire dalla palla di vetro rosso, farsi presenza nell’assenza, vagare per una piazza bianca di neve che può essere quella di ogni città, Tallin, Leningrado o Mosca, poco importa.
L’apparizione impossibile della donna dà corpo alla nostalgia tangibile del poeta. Ma nell’oscurità di quella piazza, pensando alla morte solitaria di Lucia, Hikmet pensa anche alla propria stessa morte. Questa visione è suscitata in lui dall’albero adornato, dallo splendore delle pagliuzze dorate che risplendono nel buio; sappiamo che l’albero ricorda al poeta l’energia vitale e dunque, per contrasto, gli ispira riflessioni anche sul suo contrario, sull’altra faccia della vita “morirò, perdonami, morirò”. Sembra chiedere scusa alla donna amata, ma in realtà sta prendendo congedo da qualcosa di più grande, di più vasto, di più indefinibile.
Il senso stesso della parola “Natale” è legato all’etimologia della nascita: si festeggia la vita, la venuta al mondo, la luce che combatte l’oscurità delle tenebre ed è questo ciò che Nazim Hikmet vede riflesso in quell’albero adornato, questo ciò che lo commuove indicibilmente. “Sono nato”, sembra dire, come sopraffatto da un’evidenza scontata che però non aveva mai considerato, e“d è un peccato che io debba morire”.
“Perdonami” dunque è il grido che gli sale alle labbra, sopraffatto da quella pienezza vitale, commosso dai canti delle voci bianche dei fanciulli, da quelle luci, da quell’albero di Natale che sembra d’improvviso più forte di ogni ingiuria, di ogni minaccia, come un augurio di pienezza e di speranza da tradurre in poesia per conferirgli diritto d’esistere.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “L’albero di Natale” di Nazim Hikmet: la poesia di buone feste dedicata a chi soffre la mancanza
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