Ha vinto numerosi concorsi letterari, è stata finalista al Premio Calvino 2009 con Della vita di Alfredo (Bellavite) ed è arrivata finalista al Premio Rieti con Se chiedi al vento di restare (Piemme, 2014). Brianzola di nascita, viaggia molto e ha lavorato in tanti paesi del mondo. Di chi parliamo? Ovviamente di Paola Cereda, che oltre a collaborare con ASAI, Associazione di Animazione Interculturale a Torino, dove si occupa di progetti artistici con minori italiani e stranieri, è autrice dell’ultimo splendido romanzo “Le tre notti dell’abbondanza” edito da Piemme nel 2015.
Paola, inoltre, cura la regia e la drammaturgia della compagnia teatrale integrata assaiASAI, in cui recitano ragazzi di età, provenienze e abilità diverse.
Insomma, una vita dedicata all’arte a trecentosessanta gradi, degna di una personalità frizzante e dolce come quella della Cereda.
Abbiamo scambiato due chiacchiere con lei per farci raccontare qualcosa di più sulla sua ultima fatica.
- Paola, da dove nasce l’idea del romanzo e perché la scelta di questo titolo? Cosa sono le tre notti dell’abbondanza?
Il romanzo fa parte di una trilogia sul tema dell’autodeterminazione, cioè su quanto sia possibile scrivere il proprio presente quando il contesto impone regole e destini differenti da quelli che ciascuno desidera per sé. I miei due libri precedenti erano ambientati nel profondo Nord (Brianza) e in un’isola dell’arcipelago toscano. Per il terzo romanzo, volevo una storia ambientata al Sud. Ho scelto la Calabria perché ci sono stata diverse volte per lavoro e per piacere. Mi sono avvicinata alla mentalità, al paesaggio, al dialetto attraverso lo studio e l’ascolto di tante storie di vita. Le tre notti dell’abbondanza sono quelle che seguono l’uccisione del maiale. Intere famiglie si ritrovano per la macellazione e festeggiano l’abbondanza legata al rito.
- Iniziamo ad analizzare i protagonisti del tuo romanzo. Descrivi Irene con queste parole: “Sempre con la matita in mano, sempre con la testa altrove, così maledettamente densa di carne e polpa”. Qual è il punto di forza di Irene e perché scegli il disegno, la pittura affinché le visioni di questa giovane donna possano tramutarsi in realtà? In sostanza, cosa rappresenta la pittura per Paola Cereda, che valore ha? È anche qualcosa di terapeutico?
Irene gira tutto il giorno con un quaderno arancione tra le mani, dove descrive la realtà non com’è ma come lei se la immagina. Il disegno è il modo attraverso il quale Irene adolescente si interroga su di sé, sulle relazioni e sul contesto. In un secondo momento, il disegno diventa uno strumento che permette di affrontare e superare un grave lutto. In una terza fase, è una possibilità concreta di riscatto e condivisione. In questo senso equivale a ciò che la scrittura è per me. Da ragazzina, affidavo ai diari le riflessioni e i pensieri più intimi. Ho scritto nei momenti difficili, per elaborare le separazioni e i lutti. Oggi la scrittura è un impegno quotidiano e un piacere che ho la fortuna di condividere con i lettori. In generale, le passioni come la scrittura e il disegno permettono di avere un centro. Mentre tutto ruota (affetti, accadimenti, luoghi), le passioni stanno lì, in mezzo al petto, a ricordarti che la soddisfazione del quotidiano dipende anche dal piacere di potersi riconoscersi in ciò che si fa.
- Il mare, all’interno del romanzo, assume un’importanza notevole. Simbolo di libertà e di autenticità, sembra però essere il nemico del borgo calabrese, Fosco, che ospita tutta la vicenda. Cosa rappresenta, quindi, il mare per Fosco? Perché non si può arrivare ad esso?
Fosco è un paese che non c’è ma che potrebbe esistere. Nonostante il nome, è accecato dalla luce riflessa dal mare che sta lì davanti. I suoi abitanti non possono arrivare alla spiaggia perché esiste una scala che non porta al mare. Così hanno deciso i gnuri, i signori, e in particolar modo zi’ Totonnu che a Fosco decide dei vivi e dei morti. Quella scala è il simbolo dell’ingiustizia: il mare è un bene comune, eppure la malavita lo vieta e impone le sue regole, senza dare spiegazioni. Gli abitanti di Fosco si accontentano del “così è perché così è sempre stato”. Irene invece si fa delle domande. Perché la scala non porta al mare? Chi lo ha deciso? Quando? È giusto o sbagliato, secondo me? Dalle buone domande, nasce la possibilità del riscatto.
- I masculi de Le tre notti dell’abbondanza sono uomini prepotenti e loschi, simbolo non solo della malavita locale, ma anche di una società gretta e ottusa, retrograda. Il romanzo diventa, quindi, non solo testimonianza del coraggio delle donne (di quelle che accettano un presente immutabile e che tentano di ricavarsi uno spazio all’interno della società, ma anche e soprattutto di quelle giovanissime, come Irene, Lorenza e Gianna – a suo modo, che hanno il coraggio di provare a fare la rivoluzione) ma è anche portavoce di quella che in fin dei conti è una realtà non ancora del tutto superata. E mi riferisco proprio ai ruoli degli uomini e delle donne, alle loro relazioni interpersonali, oltre che familiari. Sembra, dunque, stagliarsi sullo sfondo del romanzo anche uno scontro tra masculi e fimmine.
Nel romanzo ci sono tanti tipi di femminilità. Ci sono donne che nutrono il sistema e trasmettono ai figli la legge della vendetta, che spinge a vendicare i fatti di sangue per difendere l’onore e il cognome della famiglia. Altre donne, invece, provano a scardinare il “così è perché così è sempre stato” e sognano per se stesse e per i figli un presente dove, al posto della violenza e della legge del più forte, ci siano “pace e coscienza”, come racconta la cantautrice Francesca Prestia nella sua splendida ninna nanna “Lu bene re la mamma sì tu, figghia mia”. Per scrivere il romanzo mi sono documentata sulle vicende delle donne sindaco della Calabria e delle collaboratrici di giustizia. Le protagoniste del mio romanzo condividono con queste donne due caratteristiche: il coraggio e il prezzo personale altissimo che sono chiamate a pagare.
- “Si era rivelato un ragazzo coraggioso. Dopo il pastello rosa, era scappato sul tetto, si era vestito da Carmen, aveva costruito la scala che portava al mare e aveva dimostrato una determinazione inaspettata nei confronti della vita” . Ed ecco il ritratto di Angiolino. Lui è uno di quei personaggi che non solo ho personalmente amato molto, ma che è simbolo autentico della capacità e della forza di non tradirsi, ma di ricominciarsi oltre i confini della realtà imposta. Chi è ‘Ngiulinu e cosa rappresenta non solo per Irene, ma per il romanzo stesso?
‘Ngiulinu è il figlio di zi’ Totonnu, il capobastone di Fosco, ma non è come il padre lo aveva in mente. Fin da piccolo è visto come “un diverso”. Totonnu prova a infondergli coraggio obbligandolo a mangiare gli occhi del maiale e non si rende conto che, in realtà, quel figlio è il più coraggioso di tutti gli abitanti di Fosco. Cammina a testa alta e va incontro all’esistenza così come la desidera. Prende per mano il lettore e lo accompagna gioiosamente dentro la vita, che è imperfetta, dura e allo stesso tempo sorprendente.
- “Le parole sono etichette che si appiccicano sui ricordi, per poterli ritrovare. I corpi dentro il mare, le divise sulla spiaggia e l’assenza di giudizio: era la libertà” . È questa la libertà per Paola Cereda?
La libertà è uno dei valori di base del libro. Per me la libertà è la possibilità di riconoscersi nel proprio presente. Il libro trasuda desiderio di rompere i non detti e le barriere che ci costringono, per scelta personale o di terzi, a limitare la nostra creatività e il nostro piacere di vivere con gusto.
- “Totonnu era stato ammazzato perché non era stato capace di guardare al di là dei propri olivi” . Vuoi spiegarci chi è Totonnu e che cosa rappresenta? Perché esce sconfitto dalla guerra che sembra aver intrapreso lui stesso – e Fosco tutta – con la vita?
Siamo nella metà degli anni ’80, quando l’ndrangheta si sosteneva anche grazie ai sequestri di persona. Per un regolamento di conti tra famiglie rivali, zi’ Totonnu è costretto a nascondere una prena, una donna incinta. Non si era mai spinto così lontano. Per lui una donna incinta “è una Madonna delicata”. Il sistema però preme per cambiare: ci sono nuovi affari da fare al di là dell’oceano. Le nuove generazioni “vanno a studiare al Nord e parlano le lingue”. Totonnu viene sconfitto dalla stessa rassegnazione che impone agli altri, e che finisce col diventare la sua. In un sistema dove pesce mangia pesce, i rapporti si deteriorano e si ricreano sulla base di logiche di potere.
- Paola, che tipo di rapporto hai con la scrittura? Come vivi questo talento, questa vocazione?
Sono prima di tutto una buona lettrice. Leggere bene è mangiare cose buone. Cerco di leggere con la matita in mano, per sottolineare, studiare, imparare. Per quanto riguarda il processo di scrittura, nel mio caso la creatività si allena con la costanza. Sul computer ho un post-it che dice “tutti i giorni una paginetta”. Più si scrive, meglio si scrive. Il rapporto che ho con la scrittura è quotidiano: è il mio centro, ciò che mi permette di svegliarmi la mattina con la voglia di creare.
- Progetti per il futuro? È in corso la stesura del prossimo romanzo?
In questo periodo sto lavorando a una storia ambientata nel Polesine, nella parte veneta del Delta del Po. Nel 1951, in quella zona ci fu una grande alluvione. Sono stata nel Polesine per la presentazione del mio penultimo romanzo e, girando tra le piccole isole del Delta, ho capito che quello sarebbe stato il posto ideale per la mia prossima storia. Si parlerà di paesaggio, tradizioni, amore... e ballo liscio! Una sorpresa.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Paola Cereda, autrice de “Le tre notti dell’abbondanza”
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