Ne La cerimonia dell’addio (Mondadori, 2023) Roberto Cotroneo affonda, con efficacia e senza sconti, il coltello fra le pieghe dell’animo di una donna tormentata dal dolore e dal senso alienante di impotenza di fronte all’improvvisa scomparsa del marito Amos, vittima di un breve episodio di amnesia avvenuto giorni prima fra le quattro mura domestiche, dopo essere uscito dallo studio di uno specialista per fare una passeggiata.
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È una lama lucida e gelida quella utilizzata per compiere uno squarcio netto, ampio e profondo nel petto di Anna, il chiaro riflesso di un’indagine che non perdona, non consola, al contempo crudele, poetica e nostalgica, compiuta dallo scrittore per scandagliare con consapevolezza e verità i moti dell’animo e le dinamiche più destabilizzanti che scaturiscono di fronte alla perdita e all’attesa.
Roberto Cotroneo si è raccontato per noi in questa mia intervista, rivelandoci i retroscena di questo coinvolgente romanzo.
L’attesa è un atto di viltà. È un modo per stare fermi, per non cambiare nulla. Non ho affrontato il dolore, non ho combattuto contro la sorte. Ho spostato la speranza sempre più in là, alla fermata successiva. E aspettando, alla fine sono stata io a dimenticare il mio nome.
- Iniziamo dal titolo, La cerimonia dell’addio, sicuramente suggestivo, di forte impatto. Quale parola ha maggiore valenza, spessore: cerimonia o addio? Verso quale delle due pende l’ago della bilancia o dove dovrebbe calare subito l’attenzione del lettore?
Diciamo che il romanzo è il racconto della cerimonia. Mentre il tema, il leit motiv del romanzo è proprio l’addio. Ma in realtà sono le due parole assieme a dare la suggestione giusta. Gli addii talmente lenti da farne una cerimonia, una cerimonia che dura una vita intera, sono molto rari. Non so neppure se considerarli degli addii veri e propri. Siamo di fronte a qualcosa di diverso e di inafferrabile, come questo romanzo che ho scritto.
- Si percepisce maggior dolore, profonda amarezza nell’essere come un’onda che muore a riva, assorbita dalla sabbia, o che si infrange contro una scogliera, o nel sentirsi come un’onda che si rompe al largo ed evapora, scompare?
Credo che sia ineluttabile. Non esistono felicità assolute; esistono, alle volte, dolori assoluti. Ma le onde che non arrivano a riva sono quelle che poi ci fanno immaginare. Sono i vuoti che riempiamo di continuo. Le nostre vite sono piene di vuoti a cui cerchiamo di dare un senso. Questo è dare un senso al concetto di cerimonia. È attraversare le vite cercando le intermittenze, le incoerenze, le debolezze, e farne qualcosa di forte, di necessario persino.
- «Nulla si avvicina davvero e nulla se ne va per sempre.» rappresenta uno dei passaggi del libro che ho apprezzato molto. Cosa si sente di raccontarci a riguardo? Quali sono le sensazioni, i sentimenti e i ricordi che hanno generato questo estratto? Ritiene sia una condizione esistenziale che ci attraversa più volte nel corso della vita?
Volevo un romanzo sulla malinconia, un romanzo su quello che abbiamo perduto. Una storia di assenza, di un’assenza talmente forte da farsi un’acuta presenza. Questi erano i punti di partenza, i motivi più importanti per iniziare a scrivere La cerimonia dell’addio. Ovvero mettere sulla pagina un’esperienza che ogni lettore, in modi e sfumature diverse, si porta addosso. Queste esperienze sono parte delle nostre vite, hanno a che fare con la me-moria e con il passato, e con quella forma di nostalgia del passato che persino i bambini conoscono e che con gli anni si fa più intensa, fino a riempire e arricchire le esistenze.
Mi ripeto ogni giorno, con la disperazione di chi ha perso un anello in fondo al mare: devo cercarlo, ovunque mi arrivi un segno. Ma resterò in questo terrore segreto, tra due inaccessibili dolori.
- «Accade che le affinità d’anima non giungano ai gesti e alle parole ma rimangano effuse come un magnetismo. Ѐ raro ma accade.» Crede possa esserci maggiore verità e magia in questo caso particolare, singolare?
Abbiamo bisogno di un magnetismo diffuso: di riscoprire quell’aura che ci tiene compagnia e ci rende più visibili e più risolti. Abbiamo delegato alla bellezza e a quella strana parola, fascino, quello che Eugenio Montale in queste parole definisce invece come magnetismo. Ma non è la stessa cosa. La bellezza, si sa, può sfiorire, il fascino è ingannevole e sfuggente, quando non è costruzione abile. Il magnetismo esiste quando sei in grado di immergerti davvero nei misteri e nelle cose del mondo.
- Ci racconti della genesi di questa opera: un ricordo, un dettaglio, una suggestione in particolare ha reso possibile crearla?
È stato un flusso durato anni, da tempo volevo scrivere un romanzo sull’amore, e soprattutto sulle ambiguità dell’amore. Poi con l’amore c’è il piacere e la sensualità, il godimento e la felicità, ma c’è anche il dolore, la perdita, gli addii. Rientra nell’inevitabilità di questo sentimento.
- Che rapporto ha con la morte, l’abbandono e la solitudine, tematiche affrontate in questo romanzo? Quali stati d’animo e sensazioni le suscitano?
Non mi piacciono, non mi attraggono, non sopporto l’abbandono e la solitudine. Anche se poi sono bravissimo a stare da solo.
È accaduto una mattina. Mi sono svegliata, ho guardato la parte del letto dove ha dormito per sei anni e ho pensato: “Non ci sarà mai più”. Quel 23 novembre 2019 è stata la cerimonia dell’addio: il tempo si è ritirato dal mio sangue ed è arrivato il rimpianto, tutto assieme.
- Di quali valori e principi pensa che gli uomini siano orfani al giorno d’oggi?
Oggi viviamo in un mondo confuso, illeggibile per la maggior parte delle persone. Viviamo in un mondo materiale, basato sul potere e sul successo. E il potere e il successo non sono nulla. Non siamo più capaci di sentire gli altri, di empatizzare, ma soprattutto di ascoltare. E non sappiamo neppure più cosa sia il desiderio, quello vero.
- Lungo la narrazione si mescolano in un equilibro perfetto poesia, fotografia e musica, temi a lei tanto cari. Pensa che trasferendo nelle pagine questo suo “intimo senso di appartenenza” abbia reso il libro in qualche modo più vero, importante e completo?
Assolutamente sì. È un libro intimo, spiazzante. Spiazzante anche per i presentatori, che non mi fanno mai domande sulla parte più intima del libro, hanno il timore di essere inopportuni. E sbagliano. Dovrebbero. Ma il mio non è tanto un romanzo sul lutto, è piuttosto un testo sulla vita, sul modo che ognuno di noi ha di declinare la speranza, di mettere in gioco i propri sentimenti e adattarli all’imperfezione del destino. Perché nessun destino è quello che vorremmo, nessun futuro è scritto in una lingua che conosciamo. Penso che La cerimonia dell’addio sia un romanzo a suo modo consolatorio, una carezza in un mondo che a tutti noi è spesso apparso gelido e distante. E che in queste pagine riprende un calore inaspettato. Complici i libri, la poesia, le storie, l’amicizia, e appunto l’amore. Mai esplorato abbastanza e mai uguale a sé stesso.
- Se dovesse fotografare la vita, quale istantanea sentirebbe di attribuirle? E se dovesse accomunarla a una melodia o canzone, quale la identificherebbe al meglio?
Una fotografia in bianco e nero. Di un corpo femminile, con luci radenti e ombre intense. La melodia? Forse il tema del Trio in la minore per violino, violoncello e pianoforte di Maurice Ravel.
Dopo tanto parlare, dopo tanto interrogare e ricordare, ora so che niente è più silenzioso della memoria.
- Cosa le ha insegnato la scrittura, il confrontarsi con la stesura di un romanzo? E cosa ha imparato, ereditato dalla fotografia?
Ah, questa è una domanda immensa. Io vivo da sempre con la scrittura, è il contrappunto della mia vita. Ed è anche il mio problema. Vivo attraverso le parole. E proprio per questo, spesso, ho bisogno di toccare il mondo, con i polpastrelli, di avere un rapporto “fisico” con la vita, di cercare la materia profonda. Riguardo alla fotografia, posso dire che mi ha insegnato a guardare, ha veicolato il mio sguardo. Sono diventato un attentissimo osservatore. È il mio voyeurismo, in un certo senso. Questo finisce nei romanzi, ma finisce anche nella mia vita.
- Se i suoi libri dovessero parlare, raccontare di lei, come uomo e scrittore, cosa pensa ci rivelerebbero? Quale immagine o ritratto ne uscirebbe?
Credo che rivelerebbero la mia complessità. Spero possano rivelare che sono un uomo di sfumature, di intermittenze, di intensità e di passioni. Scrivere romanzi è un modo di dare sé stessi, regalare agli altri pezzi di mondo che poi finiscono per diventare materia dei lettori. Questo vorrei che rivelassero. Anche le parti più contraddittorie. E naturalmente profondità e leggerezza, assieme, come un equilibrio necessario.
Ma nel passato, quelli che ami non muoiono.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Roberto Cotroneo, in libreria con “La cerimonia dell’addio”
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