

Ha una voce che ride Cinzia Panzettini, da marzo nelle librerie con Il sentiero tra le risaie, edito da Corbaccio. Ci siamo incontrate qualche settimana fa in Italia alla presentazione del suo libro e ci risentiamo telefonicamente, ora che è rientrata a Tenerife dove vive.
È un’esordiente di sessantasette anni che ha studiato alla scuola Holden e ha lavorato come giornalista freelance l’autrice di questo divertente romanzo storico che porta sulle scene un periodo particolare delle nostra Storia: il mondo delle bellissime mondine. Ambientato in Piemonte nel 1949, ci racconta di un mondo che non c’è più, proprio nel momento in cui inizia a concretizzarsi il cambiamento: in una società patriarcale dove sono gli uomini stessi a raccontare la storia e sembrano esserne i protagonisti, sono in realtà le donne il motore di tutto. Una bella mondina, povera ma fortissima, una moglie tradita, solo all’apparenza remissiva, una signora ricca, disabile, ma abilissima nelle faccende umane sono le autentiche protagoniste di questa storia che tratta con leggerezza temi di estrema gravità come il tradimento, la separazione, l’amicizia, il dolore.
Un libro consigliatissimo che scopriamo grazie alla conversazione con l’autrice.
L’intervista a Cinzia Panzettini
- Che tipo di scrittore sei?
Rispondo con le parole del mio editore, che ha definito il mio esordio “intenso e delicato” e la mia penna “acuta e affettuosa”. Mi ha resa felice. Mi ha fatta sentire compresa, perché Il sentiero tra le risaie è anche un romanzo divertente e ironico, ma mi piace sapere di essere riuscita a trattare con sensibilità le vite di tutti i suoi protagonisti. Era quello che desideravo.
- Quale ritieni sia il tuo stile, la tua particolarità?
Con gli anni, il mio modo di scrivere è molto cambiato. In passato miravo alla ricercatezza del linguaggio, cercando una mia “musica”. Ma rileggendomi dopo un po’… riconoscevo con imbarazzo che certi ghirigori di parole, magari esteticamente riusciti, erano alla ricerca dell’effetto e non al servizio della storia. Non mi piacevo.
Mi sono congeniali la semplicità e la fluidità, soprattutto trattando argomenti complessi. Volevo che il romanzo fosse per tutti, per testimoniare un’epoca e un paesaggio umano scomparsi.
- Quanto è stata importante la tua formazione per arrivare a questo romanzo?
Fondamentale. Scrivo da quando ero un’adolescente, ma un romanzo non riuscivo a scriverlo. Iniziavo piena di entusiasmo, ma accadeva sempre qualcosa che mi metteva in forte difficoltà e mollavo. Ho pensato molte volte che scrivere romanzi non fosse cosa per me. Però, era quello che volevo…
Un’amica mi regalò i corsi di “Racconto e romanzo” e di “Sceneggiatura” alla Scuola Holden di Torino. Scoprii così, tanti anni fa, che un romanzo non inizia con il primo capitolo, ma tanto prima. Non è il volo libero che tutti immaginano e che io speravo: è stare coi piedi incollati a terra per la maggior parte del tempo, invece. Perché l’istinto conta, ma se lasci fare solo a lui, se non lo governi e non lo controlli, deragli.
- Da dove nasce l’idea di questo libro, quale è stata la scintilla?


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Da due momenti: da una passeggiata fotografica tra le risaie allagate, che era quasi il tramonto. I colori del cielo sull’acqua, che per me è un conduttore emozionale irresistibile, mi hanno stregata. Ho pensato a quel mondo desertificato dopo l’addio alle mondine e volevo scriverla una “storia di acqua dolce”, ma non sapevo quale.
Poi, al dormitorio delle mondine presso la tenuta La Colombara di Livorno Ferraris, nel Vercellese – un posto talmente evocativo da risultare quasi inquietante – ho visualizzato Loredana Lunardon: la giovane mondina veneta che arrivava in paesino tra le risaie e cambiava qualcosa nella vita di qualcuno. Era seduta su un pagliericcio. Bionda, bella e sulle difensive… Ho scritto la trama del romanzo quella notte.
- Il sentiero tra le risaie propone una carrellata bellissima di personaggi: come sei riuscita a tratteggiarli in questo modo?
Scrivendo le mie storie, non mi sono mai ispirata a personaggi reali. Strano, ma vero. Creo i miei personaggi in modo che siano funzionali alla storia. Ma non è solo un lavoro a tavolino: se avverto che non trovano un’anima, malgrado le mie migliori intenzioni, li scarto e immagino altro. Mi devo innamorare di loro e avere voglia di conoscerli come il palmo della mia mano. Allora, “sulla carta”, cammineranno quasi da soli. E sottolineo il “quasi”…
- A quale di questi personaggi sei più affezionata?
Mi sento legata persino ai personaggi minori, alcuni dei quali molto divertenti, ma tra i principali ho amato tanto l’Aglietti. È un disastro d’uomo, ma i lettori capiranno tutto di lui. Poi, il dottor Gregori e Loredana. Ho lavorato con la stessa serietà su tutti, e ho iniziato a scrivere quando ho sentito che erano tutti pronti.
- Ci sono donne diverse, tutte potentissime che pur nella difficoltà della vita patriarcale del secondo dopoguerra, lottano e si impongono. Sono loro le vere protagoniste?
Sono figure forti che si rivelano risolutive, e in questo senso sono protagoniste del romanzo. La storia sembra quella di due uomini – e sotto certi aspetti, anche molto profondi, lo è - ma sono Loredana, Severina e Carlotta a far partire tutto. Oppure, a dire “basta”. Ognuna a suo modo, mette in moto qualcosa di decisivo nei due protagonisti.
- Parliamo dei personaggi maschili: qual è la loro cifra?
Dell’Aglietti non posso rivelarla: chi lo ama si chiede perché sin dalle prime pagine, visto che è un bellissimo uomo scriteriato, vanitoso e superficiale. Le risposte arriveranno lentamente, ma con chiarezza.
La cifra del dottor Gregori è il mistero. Medico da tutti stimato, è freddo, formale, e non s’è mai visto con una donna. Misantropo e misogino? Omosessuale? No, perché la prima frase del romanzo lo esclude.
Don Monzino è il dubbio. Prima di quel periodo ha avuto solo certezze: ora di alcune sue “pecorelle” gli sembra di non capisce più niente.
Gabriele Beltramino è la tossicità: in amore e nell’odio.
- La storia racconta con piacevole leggerezza fatti estremamente pesanti, duri da raccontare. Come spieghi questa tua tecnica?
La spiego con il pudore, perché lo conosco. Le persone pudiche raccontano i fatti alleggerendoli. Poi, il tempo e la distanza servono a dare alle cose la giusta dimensione. E a far vedere le persone oltre i loro errori, grazie a Dio. Vorrei fosse chiaro che non ho voluto un romanzo “buonista”, ma un romanzo umano.
- “Nessuno in questa storia è cattivo”: ed è davvero così. Quale idea sociale di fondo hai sposato?
Quella secondo la quale le persone “buone” – e le virgolette sono obbligatorie – sono talvolta capaci di cose cattive. E viceversa. Scagli la prima pietra chi non si è mai pentito di qualcosa. Di tutti i personaggi del romanzo vedremo piccole miserie e piccoli splendori. L’essere umano è così, “sì o no?”, come direbbe l’Aglietti. È il motivo per il quale ho scelto di sospendere il giudizio.
- Esiste un io narrante che è un noi, una voce corale che osserva e non giudica, e questo crea un effetto davvero particolare. Ce ne parli?
Volentieri, anche perché a decidere che a raccontare fosse il paese sono arrivata per gradi e per esclusione, ed è stata in assoluto il momento più difficile. Mi ero resa conto che avrei perso qualsiasi personaggio della storia al quale avessi affidato la narrazione dei fatti. Me lo bruciavo. Fine. E l’io narrante impersonale ed esterno – col quale ho iniziato a scrivere, bloccandomi dopo una cinquantina di pagine – era una fredda telecamera che poteva descrivere anche molto vivacemente, ed era apparentemente molto comoda, ma gli mancavano il calore e la partecipazione che volevo. Era come se mancassi io, e volevo esserci: volevo essere un’autentica pettegola! Quando ho ripreso a scrivere in “noi di Risera”, infatti, sono filata via con un filo di gas…
- Il romanzo attraversa e mette in scena tutti i sentimenti e tutte le emozioni: su quale hai puntato e vorresti far emergere?
Sul coraggio di vivere i sentimenti e sul coraggio dei cambiamenti che essi comportano. Non esiste un solo sentimento che ci leghi a qualcuno che non abbia un prezzo. Amare genitori, figli, amanti, amici e animali, ci può dare dei dispiaceri.
Ma cos’altro abbiamo? Si deve saperlo, essere un po’ preparati, ma senza pensarci di continuo o mettere paletti che fanno male a noi per primi. Non si tratta di essere scellerati come l’Aglietti, ma nemmeno ibernati come il dottore. Si sono fatti male entrambi, come ci facciamo male un po’ tutti, prima o dopo, ma si tira avanti. Si chiama vita, giusto?
- Il sentiero tra le risaie fotografa un cambiamento sociale e culturale: da una banale osservazione sull’uso del diserbante, nasce una profonda riflessione…
Sì. Il romanzo, volutamente, inizia nel 1949: l’anno nel quale venne messo a punto il diserbante che avrebbe reso inutili e troppo costose le mondine. L’anno in cui, nell’inconsapevolezza di tutti, la monda tradizionale, con il suo risvolto umano tutto al femminile, iniziava a scomparire. L’Aglietti è un semplice uomo di campagna, e sente che un veleno che uccide le erbe infestanti è un veleno e basta, e non va bene per il riso. Inizia l’epoca dei diserbanti su larga scala, che mette mano agli equilibri naturali. Era un terreno rischioso, date le scarse informazioni di allora, ma non si sapeva. Il dottore però capisce anche altro: è più colto dell’amico, e vede più lontano. Sa che la Scienza e la Tecnologia sono lanciatissime, che le fabbriche aumenteranno, che ci sarà un cambiamento sociale forte e le campagne verranno abbandonate in massa. La cosa lo rende triste, ma non è un ottuso conservatore: è un uomo di quarant’anni di quell’epoca, e sente finire una stagione della sua vita. Quelle terre allagate per lui sono il suo pane, la sua missione di medico e il suo rifugio.
- Quanto di te c’è in questo libro?
C’è una bambina che ha trascorso tutta la prima infanzia dai nonni materni, in campagna. Una famiglia di contadini.
Rondò di Risera potrebbe essere Magnonevolo, a una decina di chilometri dalle prime risaie, tra orti, frutteti, mucche, galline e conigli. Sono nata nel 1958, undici anni prima dell’anno nel quale inizia la storia di Il
sentiero tra le risaie. Il nonno lavorava anche in fabbrica come caporeparto, e quando tornava lo aspettavano i lavori pesanti della terra. Ho visto il sudore a rivoli dei miei nonni sotto il sole a picco. Ho visto le loro mani ghiacciate e livide sulla stufa di cucina; i tagli, le scottature, le pezze calde per il mal di schiena. Ho sentito le sveglie che suonavano alle cinque di mattina. Era buio e una carezza mi diceva: “dormi”.
Posso evocare in qualsiasi momento l’odore della cucina, della cantina, del solaio, del pollaio, dell’orto d’estate. E quello della “sala”, che si usava quattro volte l’anno, e dove tutto era più bello e curato, ma le cose belle erano da tenere riservate: la quotidianità era rinuncia, anche se i nonni non erano poveri. Sapere accontentarsi, per loro era un valore assoluto e me lo insegnavano perché le loro vite sono state segnate, sino alla fine, da due guerre. E da un giovane padre mai più tornato dalla sua bambina di cinque anni, che era mia nonna.
Si sono concessi qualche privilegio che oggi fa sorridere: la Seicento, i caloriferi, il frigo, la tv e persino la lavatrice… Ho respirato quell’aria e quell’atmosfera. E le ho portate tra le risaie, nel mio romanzo.
- Quali sono i tuoi progetti futuri?
Sto scrivendo un’altra storia, ambienta negli anni Settanta tra Torino e Biella, la mia città d’origine. Vuole essere un altro spaccato d’epoca, il più possibile accurato, che si concentra su un aspetto sociale particolare e molto poco indagato e conosciuto. La protagonista mi piace molto: è sensibile e spiritosa - malgrado su certi aspetti della sua vita ci sia poco da ridere - ed è l’anima trainante di un gruppo di amici che è una specie di “corte dei miracoli”.
Non sarà un altro Sentiero tra le risaie: l’epoca è diversa, il linguaggio è diverso, l’Italia è diversa, ma l’approccio è quello.
- Nessuno ti ha chiesto se Il sentiero tra le risaie avrà un seguito?
Per la verità, tutti coloro con i quali ho parlato e che mi hanno scritto. Mi fa tanto piacere che mi chiedano che ne è stato dell’Aglietti, ma soprattutto del dottore, e leggendo il romanzo si capisce perché.
Ho chiuso il romanzo lasciandolo pieno di bambini e di ragazzini che stanno crescendo. Solo il vedovo Beltramino ha sei figli maschi… Ho scritto la trama del seguito anni fa. Recentemente l’ho riletta e cambiata in più punti in modo sostanziale. Le ho dato un bel ritmo. Affronta, tra gli altri aspetti delle vite dei protagonisti, un pregiudizio che ha resistito agli anni e un tabù importante: entrambi ai danni di due donne.
Sinceramente, credo sia una storia molto interessante, ma vedremo come andrà questo romanzo, e se mi sentirò in grado di fare un lavoro che ne regga lo spirito e il livello. Ho la fortuna di avere un editore magnifico: mi fido ciecamente del suo giudizio.

Recensione del libro
Il sentiero tra le risaie
di Cinzia Panzettini
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Cinzia Panzettini, in libreria con “Il sentiero tra le risaie”
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