
La poesia è sempre stata una manifestazione cruciale della cultura araba, parte integrante della vita quotidiana.
Così Ilan Pappé introduce una raccolta che trascende la dimensione letteraria per farsi testimonianza viva, documento storico, atto politico. Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza, curato da Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini e Leonardo Tosti ed edito da Fazi nel 2025, ci raggiunge con la forza di un pugno allo stomaco, capace di scardinare le nostre certezze.
La raccolta ospita voci diverse tra cui Hend Joudah, Heba Abu Nada e Refaat Alareer, questi ultimi entrambi uccisi nel 2023.
Quando la morte diventa un’esperienza quotidiana, la poesia diventa un rifugio per l’anima e un grido contro l’oblio.
scrive ancora Pappé. Ed è questo grido che i curatori hanno voluto amplificare, offrendo al lettore frammenti di anime che resistono all’annientamento.
In questa resistenza all’annientamento emerge il concetto fondamentale di Sumūd, parola che nella cultura araba sintetizza la resilienza palestinese. L’atto poetico durante un genocidio assume una dimensione che trascende la mera creazione artistica, dove anche il luogo domestico, sicuro per eccellenza, diventa chimera distrutta, persa e diventata inconsistente; il poeta Hend Joudah condensa il dolore di una casa perduta, simbolo di identità e appartenenza.
Casa mia, dove sei?
Ti cerco negli angoli dei ricordi,
tra le pieghe dei sogni infranti.
Casa mia, sei diventata polvere
che si posa sui miei capelli,
sui miei occhi che non sanno più piangere.
La casa, che è luogo dove andare, dove rifugiarsi e quasi prigione, obbiettivo di distruzione e che si trasforma: da luogo sicuro a luogo fragile precario inconsistente, che Yousef Elqedra descrive molto bene. Senza fondamenta. Esposta al vento e all’indifferenza dell’uomo e della storia:
La tenda è la nostra casa ora,
fragile contro il vento della storia,
permeabile alla pioggia dell’indifferenza.
Ma il poeta non riversa solo il "sé stesso" in ciò che scrive; attraverso le sue parole, può scriversi la cronaca contemporanea di un dramma umano silente e silenzioso, raccontando con precisione ciò che le telecamere non mostrano. Questo è quello che fanno i versi di Haidar al-Ghazali, versi privi di ornamenti retorici e metaforici che arrivano all’autenticità delle bombe capaci di squarciare una vita quotidiana semplice, ribaltandone prospettive e obiettivi di un lento fluire. Un fluire fatto di laceranti voci. Che urlano insieme. Che si fanno mute assieme. In una stanza. Durante il sonno dove l’orrore di una morte collettiva diventa preferibile a una sofferenza quotidiana di una sopravvivenza imposta e solitaria.
Di fronte a tali testimonianze, forte e profondo è il senso di colpa. La colpa di sopravvivere o di essere sopravvissuto. Una sopravvivenza che non deve essere vissuta come "colpa", ma come investitura di testimonianza di un orrore. Facendo così delle voce del poeta voce legittima di un "io c’ero, io ho visto io vi racconto. Io sono testimone vivente".
Testimone come Marwan Makhoul, poeta esiliato che diventa custode della memoria collettiva degli abitanti martoriati di Gaza, e che si domanda con quale legittimità possa la sua lontananza investirlo del ruolo di "poeta". Sta a noi poi comprendere come le sue parole "piume" tra le bombe possano diventare unico suono possibile per ricordare i nomi dei morti, di tutti i morti, attraverso la parola che diventa unica resistenza capace di tagliare "le catene dell’oppressione". Parola che si fa poesia e che per Dareen Tatour "è l’uccello, che vola oltre le sbarre".
Ma la memoria collettiva non è solo la "ricordo condiviso" o "dolore condiviso"; si fa anche "morte dell’individuo" e seme di resistenza nelle aule di tutto il mondo, "nei cuori di chi ama la libertà". Come si legge nei versi commoventi di Refaat Alareer.
In questo contesto di violenza, anche l’esperienza della maternità viene completamente trasformata. Una maternità che Ni’ma Hassan descrive come "alterata" dalla paura che delle esplosioni che possono alterare il respiro dei figli. Dove gli occhi di una madre diventano "sentinelle" che non conoscono riposo, le braccia scudi troppo fragili contro il ferro e il fuoco. Ma una madre non diventa solo scudo per i propri figli; è anche depositaria delle loro ultime volontà, qualora la morte li colga. Madri che diventano custodi di tombe e sepolture, depositarie di decorale con fiori e lacrime.
In questo scenario di distruzione senza soluzione, la natura emerge e si fa simbolo di di continuità e speranza e l’ulivo:
piantato da mio nonno, testimone di sette guerre. Con le sue radici sono più profonde
che diventa simbolo di una resistenza transgenerazionale. Ed il mare si fa unica finestra, l’unico orizzonte simbolo di una libertà negata. Una libertà che non può più essere rimandata ad altri. Impone attenzione a una responsabilità ineludibile: ascoltare voci che rischiano di essere soffocate per sempre. Perché la pace non diventi parola svuotata di significato, senza giustizia e senza verità. Una verità che ha bisogno della poesia cruda e forte per essere narrata nella sua interezza.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza
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