

Per comprendere il mobbing, una forma di abuso esercitato da una persona o da un gruppo di persone nei confronti di uno o più soggetti e che sempre più si riscontra anche in campo lavorativo, è necessario incasellare tutta una serie di esperienze e teorie che si concentrano, anzitutto, sulla creazione, sulle caratteristiche e sulle definizioni del gruppo.
Insieme di individui e gruppo: teorie e definizioni
Per considerare un insieme di persone un gruppo, sono innanzitutto necessarie queste premesse di base:
- interdipendenza tra gli individui;
- perseguimento di un obiettivo;
- bisogno di appartenenza.
Lewin (1951) analizzò il gruppo come entità superindividuale e prese a prestito il concetto di campo dalla fisica: come un campo magnetico esercita una forza su un ago, così l’individuo all’interno del gruppo è influenzato da forze psicologiche che lo trascendono. Alcuni psicologi già agli inizi del ’900 parlavano di “collusione inconscia” dell’individuo nel gruppo. Il gruppo per Lewin è una “totalità dinamica”, cioè è diverso dalla somma dei singoli individui che ne fanno parte.
Nel valutare un gruppo, secondo Scilligo (1973), bisogna considerare queste variabili:
- età;
- sesso;
- personalità di base;
- intelligenza;
- dattabilità;
- espansività;
- sensibilità;
- dominanza;
- autoritarismo.
Per Carli, Paniccia, Lancia (1988) uno degli assunti degli studi di Lewin, Rogers, Berne, Freud, Moreno è che esistono delle “invarianti fenomenologiche" dei gruppi. Per Stone (1992) esistono 3 tipi di fenomeni nel gruppo: fenomeni relativi al gruppo come totalità, dinamiche interpersonali e processi intrapsichici.
Motivazione e coordinamento: le falle del gruppo
Che il gruppo sia diverso dalla somma dei membri non è sempre un fatto positivo. A riprova esiste in letteratura la tradizione del pensiero anticollettivo di Lebon (1897) e Mcdougall (1920). Anche per quanto riguarda la performance, Steiner (1971) ha scoperto che la produttività effettiva di un gruppo è uguale alla produttività potenziale meno le perdite di processi imperfetti. Uno di questi processi imperfetti è “l’effetto Ringelmann” (1913), dovuto a deficit di motivazione.
Per Ingham (1974) e successivamente per Stoebe e Frey (1982) esistono due perdite di processo nel gruppo: le perdite dovute alla motivazione e le perdite dovute alla mancanza di coordinamento. All’interno di un gruppo possono verificarsi casi di free rider o di social loafing (Latanè, 1979). Nel primo caso un membro sceglie deliberatamente di disimpegnarsi, consapevole che difficilmente qualcuno se ne accorgerà (come nel tiro alla fune). Nel secondo caso tutti i membri vengono influenzati da una sorta di inerzia sociale non intenzionale.
Per perdite di coordinamento invece bisogna intendere i tempi lunghi per giungere al consenso nella presa di decisioni, la difficoltà di condivisione delle informazioni, l’organizzazione del gruppo nello svolgimento dei compiti (Zappalà, 1988). Un paradosso riscontrabile nell’analisi dei gruppi è che un insieme di persone considerate normali può formare un gruppo violento, mentre un gruppo strutturato può svolgere funzione terapeutica nei confronti del singolo individuo con disturbi psichici (ad esempio lo psicodramma di Moreno, la terapia cognitivo comportamentale, i gruppi bioenergetici, etc etc) o addirittura un gruppo di persone con disturbi o dipendenze può essere terapeutico (i gruppi di autoaiuto).
Mobbing: costanti del gruppo ed emarginazione
Durante il quarto congresso internazionale di psicoterapia, svoltosi a Vienna nel 1968, il gruppo veniva concepito come
difesa contro l’ansietà che ci viene dal pensiero dei miliardi di individui che vivono sul nostro pianeta.
Allo stesso tempo l’individuo, per essere parte integrante di un gruppo, deve ridefinire il concetto di sé stesso (Brown, 1978). È quindi pacifico ritenere che una persona emarginata dal gruppo di lavoro sia fortemente demoralizzata e demotivata. Secondo Fiedler (1967) esistono tre ruoli costanti nel gruppo: il leader, il nuovo arrivato, il capro espiatorio.
Nel mobbing la vittima diventa sempre capro espiatorio. Secondo Lewin, Lippit e White (1939), la leadership può essere autoritaria, permissiva, democratica. Avviene talvolta che una leadership autoritaria sfoci nel mobbing. È argomento controverso stabilire quali possono essere i fattori che causano l’emarginazione in un gruppo. Il motivo più probabile è la diversità dal resto della comunità. Una rassegna di studi ha rilevato infatti la contiguità tra somiglianza, credenze simili e amicizia (Byrne, 1971).
L’ambiente di lavoro è spesso costituito da un piccolo gruppo che tende a escludere i “diversi”. Questa differenza che contraddistingue un individuo dal resto del gruppo può essere volontaria o involontaria. Nel primo caso, ad esempio, l’individuo è un deviante/anticonformista che non si conforma alle regole del gruppo. Il gruppo di lavoro è ufficialmente un gruppo secondario (Cooley, 1902), ma al suo interno si creano dei sottogruppi informali, che stabiliscono regole di comportamento e livelli di prestazione (Brown, 1961). Il gruppo informale può fornire sostegno, solidarietà, imozione dell’ansietà individuale, soprattutto in lavori rischiosi; una maggiore coesione del gruppo di lavoro aumenta la sicurezza sul lavoro (Ancelin, Schutzenberger, 1961). Ma in determinate circostanze, il gruppo informale può anche emarginare. Nel caso dei devianti/anticonformisti o della cosiddetta diversità volontaria i membri del gruppo rivolgono inizialmente maggiore attenzione ai devianti per fare loro cambiare idea, ma se questi tentativi hanno esito negativo, allora vengono evitati (Festinger, 1950). Nel caso della cosiddetta diversità involontaria la persona appartiene a una minoranza all’interno del gruppo per orientamento politico, sessuale, valoriale, religioso, per etnia, etc. In questa circostanza il fenomeno della categorizzazione sociale può accentuare le differenze esistenti.
Categorizzazione, polarizzazione, normalizzazione e obbedienza cieca
La categorizzazione è la tendenza a considerare gli elementi del mondo esterno come raggruppati in insiemi omogenei. Di conseguenza, gli elementi classificati in una stessa categoria vengono stimati come più simili tra loro di quanto in effetti siano, mentre vengono accentuate oltre misura le differenze tra le diverse categorie, enfatizzando i tratti che possono considerarsi distintivi. Inoltre è altamente improbabile che un razzista da solo se la prenda con un immigrato di origini africane, mentre ciò potrebbe accadere quando si trova in un gruppo di persone razziste. Questa differenza di comportamento si può spiegare con il fenomeno di deindividuazione (Zimbardo, 1969), che comprende sensazione di anonimato, responsabilità diffusa, attenuazione dell’identità personale, sottovalutazione e trasgressione delle norme istituzionali.
La polarizzazione è uno spostamento nella posizione verso cui la maggioranza è orientata. Una rassegna di studi (Moscovici, 1969; Fraser, 1973; Laughin, 1980) ha documentato questo fenomeno del gruppo nella presa di decisioni, ma è plausibile che ciò avvenga anche nella valutazione delle persone. Anche Myers e Bishop (1970), con le loro ricerche su un gruppo di studenti con pregiudizi razziali, hanno confermato il movimento verso l’estremo di membri del gruppo con atteggiamenti simili.
Un altro processo che può rafforzare l’ostilità di un gruppo nei confronti di un individuo è la normalizzazione, ovvero il fenomeno di convergenza spontaneo dei punti di vista. Come ha scritto Allport nel 1954:
C’è nell’uomo una tendenza fondamentale a moderare le proprie opinioni e la propria condotta in rapporto alle opinioni e alle condotte degli altri.
Fu Sherif nel 1935 a dimostrarlo con il suo esperimento sull’effetto autocinetico, ripetuto da altri studiosi con i medesimi risultati. Sherif trovò che gli individui, quando si imbattono in stimoli o circostanze di ambigua interpretazione, si adeguano acriticamente alla posizione assunta dal gruppo. Asch nel 1952 sottopose degli studenti a un esperimento sulla discriminazione visiva: i soggetti avrebbero dovuto stabilire quale tra tre linee di confronto era di lunghezza uguale a una linea di riferimento (linea standard). Il compito era così facile che un gruppo di controllo formato da 37 persone, che risposero da sole, non fece alcun errore. Nella situazione sperimentale invece i soggetti, seduti a semicerchio, dovevano dare il loro parere a voce alta, di fronte al gruppo composto da 6 persone. Gli altri componenti del gruppo erano complici dello sperimentatore. Nelle 12 prove critiche, in cui i complici sceglievano la linea sbagliata, la percentuale di errori fu del 37%; ciò dimostra l’effetto prorompente che la pressione del gruppo, che commette errori ma che è unanime, può esercitare sui giudizi inizialmente corretti dei singoli. Dal punto di vista cognitivo, una persona potrebbe perciò aderire al parere negativo che la maggioranza ha sulla vittima di vessazioni.
Un altro fenomeno è l’obbedienza cieca all’autorità. Celebre è l’esperimento di Milgram del 1969, in cui ogni soggetto esaminato doveva somministrare scariche elettriche a un’altra persona ogni volta che rispondeva erroneamente a dei quesiti. L’intensità della scarica veniva aumentata al progredire degli errori. In realtà la vittima era un complice del ricercatore e non riceveva nessuna scarica elettrica, ma fingeva di provare dolore. I risultati furono sbalorditivi: il 62% dei soggetti, istigati dal ricercatore, aumentava l’intensità della scarica, fino a quando Milgram non gli diceva di smettere. Dato che tutti i soggetti erano adulti e capaci di intendere e di volere, risultò stupefacente che obbedissero ciecamente, pur essendo consapevoli che ciò causava dolore a un altro essere umano.
Gli spettatori passivi e il co-mobber
Esiste poi il fenomeno del bystander. Che esistano degli spettatori passivi nel mobbing è accertato. In una ricerca svolta da Work, Stress and Health nel 1999 vennero intervistate 200 persone, di cui 154 vittime di mobbing e 53 testimoni di mobbing. Si iniziò a parlare di bystanding con l’omicidio di Kitty Genovese nel 1954, una donna uccisa a coltellate, nonostante chiedesse aiuto. 38 persone affacciate alla finestra assistettero all’omicidio, ma vennero chiamate le forze dell’ordine quando ormai era tardi.
Un fattore determinante è il numero delle persone presenti (Latanè e Dabbs, 1975). In un esperimento Latanè e Dabbs facevano compilare ai soggetti un questionario, quindi accendevano un registratore nella stanza attigua in cui era registrata la voce di una donna che chiedeva aiuto. Le persone che erano da sole nella stanza accorsero a prestare aiuto nel 70% dei casi, mentre quando erano in due nella stessa stanza si accingevano a prestare soccorso il 40% dei soggetti. Secondo Latanè e Darley i fattori sociali che possono determinare il mancato intervento sono:
- l’ignoranza pluralistica;
- la diffusione di responsabilità;
- l’inibizione in pubblico.
L’ignoranza pluralistica è causata dal fatto che spesso l’evento può essere ambiguo e il soggetto interpreta la situazione nello stesso modo della maggioranza. Quindi se la maggioranza non interpreta il fumo come campanello di allarme di un incendio ma come uno scherzo, anche il singolo segue la maggioranza. Piliavin e Piliavin nel 1972 hanno invece concluso che l’intervento o il mancato intervento è dovuto a un’analisi costi/benefici. La persona quindi valuterebbe i costi dell’intervento (eventuali danni personali, perdita di tempo, impegno, imbarazzo di fronte ad altri) e allo stesso tempo del mancato intervento (costo di empatia: sensazione spiacevole nel vedere soffrire la vittima; costo personale: senso di colpa per non essere intervenuto e disapprovazione pubblica). Per Cialdini (1991) il comportamento prosociale non scaturisce dall’altruismo ma dall’evitare sensazioni psicologiche spiacevoli che scaturiscono dal mancato intervento.
Per quanto riguarda i side-mobber o co-mobber, la spiegazione del loro comportamento è l’identificazione, ossia il legame emozionale con il mobber, che porta al rispecchiamento nel mobber e alla sua imitazione. Il side-mobber è quindi un seguace del mobber, ma può essere talvolta anche un lavoratore che ha subito vessazioni e successivamente si identifica con il suo oppressore. A riguardo bisogna ricordare che esistono casi di identificazione estrema come quelli documentati da Bettelheim nel 1943 dei prigionieri ebrei in campi di concentramento nei confronti dei loro aguzzini e come quelli documentati da Milner nel 1975 dei bambini afroamericani nei confronti di bambini bianchi.
Infine, per quanto riguarda i mobber, una spiegazione è il disimpegno morale associato a scarsa empatia, che porta all’autoassoluzione. Secondo Caprara (2000) il disimpegno morale è determinato da:
- giustificazione morale;
- etichettamento eufemistico;
- confronto vantaggioso;
- spostamento e diffusione delle responsabilità;
- sottovalutazione delle conseguenze;
- colpevolizzazione della vittima.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Dinamiche di gruppo e mobbing: teorie, definizioni ed esperimenti
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