Come un’onda che sale e che scende
- Autore: William T. Vollmann
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: minimum fax
- Anno di pubblicazione: 2022
Pensieri su violenza, libertà e misure di emergenza
Quando si dice un’opera “monstre”: un libro di quasi mille pagine che vivaddio non è un romanzo, ma una cosa (LA COSA) incatalogabile. Ancor più se sai che il volume che ti trovi fra le mani è solo il compendio di un lavoro molto più esteso, in sette parti, come ricorda lo stesso autore nella prefazione italiana - solo a immaginarlo, da capogiro.
Dunque questo hanno fatto minimum fax, il traduttore Gianni Pannofino e William T. Vollmann, lo scrittore americano di cui parliamo: hanno preso LA COSA intitolata Come un’onda che sale e che scende, l’hanno tagliata e ricucita in un fagotto più abbordabile (ma solo un po’) fatta di massiccia documentazione, studi, ipotesi interpretative, applicazione metodica di definizioni sul tema cruciale, ineludibile dell’esperienza umana: la violenza – e per consonanza, la morte. Per fortuna però Vollmann non è un filosofo, di qui la complicazione del libro, che è insieme strutturale ed ermeneutica.
Avvalendosi delle proprie esperienze di reporter, viaggiatore, cronista, l’autore di, fra gli altri, Europe Central, Storie della farfalla, Afghanistan Picture Show intrude nella mera interrogazione teorica sul perché e sul come della violenza, specie nelle sue declinazioni politico-terroristiche, la pratica di un uomo impegnato per anni su vari teatri di guerra, Colombia, Cambogia, ex Jugoslavia… Vollmann tenta di approssimare l’affascinante e forse impossibile obiettivo di, non si vuol dire, venirne definitivamente a capo, ma ricostruirne i punti cruciali per una mappa plausibile puntellando una domanda chiave: fino a che punto può essere censurata la violenza? Perché, sia chiaro, essa non può essere un tabù e morta lì - anch’essa può avere le sue ragioni. Ci vuole un metodo però per leggere nel fondo abissale delle sue possibili giustificazioni – una sorta di trattato delle ragioni e dei torti, dei variabili e alterni punti di vista per catalogarli attraverso quello che Vollmann definisce “calcolo morale”: come un’”etica sperimentale”, che contestualizza, distingue, confronta i punti vista, registra le clausole possibili.
Detta così, oltre allo sgomento per la mole di una vocazione iper-massimalista, il lettore potrebbe sospettare un’alacrità classificatoria poco seducente, ma stiamo parlando di Vollmann, di uno scrittore di fagocitante immaginazione che al lavoro mette tutto, mente, carne e sangue. Capace come pochi di declinare il suo talento su piani diversi, Vollmann racconta, inesausto, decine di storie, raccolte in venti anni e passa di lavoro, e lo fa in maniera magistrale. Il suo stesso indagare procede per ipotesi, tentativi di verifiche, messe in dubbio, ma sempre tenendo viva sulla pagina la concreta esistenza di persone, sconosciute o di prima importanza storica poco importa (Napoleone, Stalin, Lutero, Pol Pot e tanti poveri cristi), bande terroristiche, gruppi politici. Domandandosi per esempio:
“in quali circostanze è giustificata la violenza di classe?”
Ora, per comprendere quanto lo scrittore americano sia vicino all’essenza tragica delle cose, quanto la sua scrittura – densa, scintillante, mai pleonastica - sappia avvicinare il lettore agli snodi nevralgici dell’esperienza umana sulla terra. bastano le pagine introduttive, le “Tre meditazioni sulla morte”. Dopo aver visitato le catacombe di Parigi, “una “spiaggia per necrofili” priva di mare, sente stringersi su di sé “la trappola biologica” che ci consuma. “Vedevo e inalavo morte” scrive Vollmann – il suo sapore gli resta addosso per giorni, spargendosi su ogni cosa. Fino a quando riesce a tornare nella condizione che conosciamo tutti: cercare di prendere senso dove lo si trova, e se non lo si trova, inventarlo. Per tenere a bada l’incombenza ontologica di cui nulla sappiamo: “La morte non può essere sperimentata né dai vivi né dai morti”.
C’è una spinta etica, dichiarata a più riprese, come dire, il desiderio di un libro utile, la cui architettura, però, lo stesso impianto immaginativo e, va da sé, la qualità di scrittura proiettano in uno spazio cosmico lontano anni-luce dal flebile frignare di tanta pseudo-letteratura oggidiana. Senza mai dimenticare che Vollmann è un americano, benché figlio di un immigrato tedesco (anzi, come ha recentemente raccontato, un brutto padre che ha replicato su di lui i barbari metodi educativi di cui era stato vittima in Germania: botte a volontà): se per i più di noi è contestabile la sua idea che possedere un’arma sia lecito, molto si potrebbe imparare (specie a sinistra) dall’amara constatazione che la violenza sia immutabile e inestirpabile dalla storia umana.
Nel suo lavoro di reporter la morte lo ha sfiorato molte volte, ha colpito gli amici, tanti ne ha induriti, ma gli scherzi peggiori glieli ha fatti nella vita privata: gli ha portato via una sorella piccola che gli avevano affidato, e, ancora, non molto tempo fa, una figlia giovanissima. Tutto questo non ha tolto un briciolo di genio a uno scrittore di categoria superiore, con pochj paragoni al mondo,
William T. Vollmann, Come un’onda che sale e che scende, Traduzione di Gianni Pannofino, minimum fax, pag 986 euro 25
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