L’orrore della Cecenia nei libri di Anna Politkovskaja
Accostarsi agli articoli di Anna Politkovskaja (New York, 30 agosto 1958 – Mosca, 7 ottobre 2006) è duro. È guardare da un porto al sicuro il mare in tempesta, lontano, sapere che lí ci sono vittime, che le onde dilaniano corpi, strappano grida di dolore, torturano, fanno impazzire. Leggere Anna Politkovskaja è avventurarsi in posti lontani, di cui si ignora perfino il nome (Inguscezia, Cecenia, Daghestan) per trovare storie. Le sue non sono storie irriconoscibili, perché lontane da noi, geograficamente ed emotivamente, visto che assomigliano molto alle pagine più oscure e oscene (proprio perché ancora oscure) della nostra storia, anche recente, ai volti di ragazzi uccisi, picchiati, macellati, che abbiamo visto nei nostri tg.
Anche alcune nostre storie hanno i tratti somatici del figlio di Aminat, strappato di casa alle cinque del mattino e torturato selvaggiamente. Un ragazzo sano, torturato fino alla morte, a cui è stato strappato tutto, tranne che uno straccio di confessione. Le famiglie cecene si considerano fortunate se riescono a ottenere indietro il corpo dei propri ragazzi. Il figlio di Aminat viene accusato di tenere nell’armadio materiali esplosivi rudimentali. Aminat non ce l’ha nemmeno, un armadio. È la lotta al terrorismo baby: vuole risultati immediati e pazienza se confessioni sono estorte con la tortura, pazienza se i corpi straziati vengono restituiti alle lacrime dei loro genitori proprio perché riconosciuti innocenti. L’innocenza in Cecenia è un corpo da piangere. È la lotta al terrorismo, baby. Pazienza se in un giorno di mercato si fa uso di missili tattici terra-aria sulla folla (e si ha il coraggio di chiamarla "esplosione di materiale bellico" su tutti i giornali). È la stampa in un paese democratico, bellezza.
Leggere Anna Politkovskaja è esplorare, osservando da vicino, socchiudere gli occhi per fissare meglio non uno qualsiasi, ma l’uomo che, al di sopra di ogni legge, getta a terra, dà calci sul viso, sfigura, brucia, strazia. E nessuno può essere persona così assuefatta alla violenza, per averla respirata, per averla inoculata come un germe, da non fermarsi un attimo, da non vergognarsi, graffiato a sangue dalle pagine. Perché quel che abbiamo di umano trema al contatto con i libri di Anna Politkovskaja, indietreggia di fronte alla fiamma che la divora, allo zelo per la verità, per i fatti, per il racconto dei fatti. Indietreggia perché l’orrore respinge, schifa, fa impallidire di raccapriccio.
L’orrore ammutolisce l’era della comunicazione, che indietreggia perché profondamente colpevole, e colpevole perché inadempiente, perché costantemente impegnata a guardare da un’altra parte. E alla fine vennero a prendere me, nel silenzio, perché non c’era nessuno più, che potesse difendermi. Nessuno più, che potesse raccontarmi. Per i tempi moderni, non ci vuole più pelo sullo stomaco, più resistenza all’orrore, no. Ma un’anima più grande, una sete maggiore, quella sì.
Sta scritto fuori Groznyj: vivere in Cecenia è da eroi. Anche raccontare la Cecenia non è da meno; deve aver in sé qualcosa di eroico e a maggior ragione se si pensa ad Anna Politkovskaja. Devono avere al contempo peso maggiore le sue parole, i suoi moniti, se si pensa al killer che l’ha attesa sotto casa, le ha sparato mentre portava la spesa e se ne è andato, senza scappare, al di sopra di ogni legge, in quella zona d’ombra che conosce ogni nazione, che delle democrazie moderne sembra essere una costante, un abisso che grida, ributtante di sangue e ingiustizie.
Proibito Parlare di Anna Politkovskaja
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From Russia, with love: "Proibito parlare" è una raccolta di articoli pubblicati sulla "Novaja Gazeta", che in realtà sono lettere d’amore per l’uomo, per quanto di più povero, indifeso, terribilmente maltrattato, sommerso, soffocato si copra di cartoni, si nasconda ai margini, si protegga la testa dai calci dei fucili, il viso, dalle bruciature di sigaretta. E Anna affida al lettore una scintilla, qualcosa dalla sua fiamma, e una strada, la meno battuta, la più temuta, estremamente pericolosa, sulle rive della domanda di Pilato: Che cos’è la verità?
E non solo. È lei stessa a marchiare il viso del lettore come se a bruciarlo fosse una sigaretta, perché quel che viene descritto non rimanga lettera morta, ma sia pulsione, spinta, lontano da quel che in noi stessi vuole la violenza, e l’ingiustizia, vuole mettere il piede sulla testa del vicino.
E da quelle rive, dalle rive delle domande senza risposta, dalle rive della violenza insensata, guardare il mare in tempesta, lontano, sapere che lì ci sono vittime, che le onde dilaniano corpi, strappano grida di dolore, torturano, senza volgere altrove lo sguardo, per parlarne a chiunque, urlando in piedi sui tetti. Quel che ha in serbo l’ultima pagina dell’ultimo articolo non è in fondo che questo: voglia improvvisa di gridare dai tetti la verità.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Anna Politkovskaja: una scrittrice per la Cecenia
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