Tra i capolavori della letteratura che demistificano il mito del sogno americano, il “romanzo statunitense” di Kafka ha senza dubbio un posto di rilievo. Il titolo Amerika è stato imposto al libro nel 1927 da Max Brod (1884-1968) che ne curò la pubblicazione, ma il nome con cui l’autore indica il manoscritto nei suoi diari e nella sua corrispondenza è Der Verschollene, ovvero Il disperso, sicuramente più aderente alla trama, la quale racconta le disavventure di un giovane costretto ad emigrare nel nuovo mondo.
Link affiliato
La “land of opportunity”, che aveva trovato il suo poeta nazionale nel Walt Whitman (1819-1892) della “bibbia democratica” Foglie d’erba (1855), diventa per Kafka un labirinto irto di insidie, secondo un topos letterario jiddisch che vede negli Stati Uniti una falsa terra promessa piena di delusioni pericolose.
Le accuse rivolte al Mago di Oz di L. Frank Baum
Ma forse per conoscere in maniera indiretta alcuni lati oscuri del mondo statunitense si può leggere con sguardo indagatore un’opera apparentemente ingenua, un libro per bambini: Il Mago di Oz, pubblicato nel 1900 dallo scrittore Lyman Frank Baum (1856-1919).
Da tempo questo grande classico è al centro di varie accuse: a giudizio di alcuni critici, Dorothy (la protagonista) incarnerebbe i valori americani, mentre le scimmie alate altro non sarebbero che una rappresentazione negativa dei neri.
Un’altra controversia che circonda il libro è quella sulla possibile presenza di un messaggio anti-immigrazionista nel romanzo per ragazzi. Ecco il passaggio incriminato:
“Raccontami qualcosa di te e del paese da cui vieni, - la pregò lo Spaventapasseri quando la bimba ebbe finito il suo spuntino.
Allora Dorothy gli parlò del suo paese tanto grigio, e gli raccontò che era stato un uragano a portarla in quello strano regno di Oz. Lo Spaventapasseri l’ascoltò attento, poi disse:
- Non capisco proprio perché tu desideri di lasciare questi bei luoghi e voglia tornartene in quel paese squallido e grigio che tu chiami Kansas.
- Perché non hai cervello, - rispose la ragazzina. - Noi gente di carne ed ossa preferiamo vivere nelle nostre case, anche se grigie e malinconiche, piuttosto che in qualunque altro paese, fosse anche il più bello del mondo. Non c’è nulla di così bello come la propria casa.
Lo Spaventapasseri sospirò.
- Già, io non posso capirlo, - confessò amaramente. - Se le vostre teste fossero tutte riempite di paglia come la mia, probabilmente, tutti voi vivreste nei luoghi più belli e allora il tuo paese sarebbe forse completamente disabitato. È una bella fortuna per il Kansas che tu e i tuoi compatrioti abbiate del cervello.”
Chi lascia il suo paese – secondo alcune interpretazioni politiche del Mago di Oz – sarebbe quindi giudicato un decerebrato, una dura opinione non estranea alla mentalità degli americani dell’epoca.
Link affiliato
Lo storico Giovanni Borgognone nella sua Storia degli Stati Uniti (Feltrinelli, 2021) osserva che
“La prima moderna nazione dell’età rivoluzionaria nasceva in assenza di un esplicito elemento accomunante come l’etnia o la lingua, sebbene anch’esse potessero parzialmente indicare una qualche appartenenza collettiva. Il popolo-nazione si riconosceva innanzitutto nella difesa del bene comune contro il privilegio”.
Gli USA si fondano sull’immigrazione, ma il rapporto del paese con questo fenomeno non è per nulla sereno. Gli immigrati diedero un contributo fondamentale all’economia americana in termini di produzione e forza lavoro, ma questa risorsa non fu sempre accolta positivamente, soprattutto negli anni di Baum. Spiega Borgognone che
“tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, gli Stati Uniti divennero altresì meta di quindici milioni di immigrati provenienti dall’Europa meridionale e orientale. Questa ondata di arrivi fece presto parlare di una “nuova emigrazione”, assai diversa da quelle precedenti. Nell’espressione vi era, evidentemente, un forte connotato negativo razziale: i nuovi arrivati infatti erano in buona parte dei casi lavoratori non specializzati (unskilled), attirati dal boom industriale statunitense [...]”.
Ciò ebbe delle conseguenze sociali terribili:
“Nei confronti dei neri e di alcuni gruppi di immigrati si diffuse, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, la pratica dei linciaggi, la cui origine etimologica deriva forse dal colonnello quacchero della Milizia Charles Lynch [1736-1796], che in Virginia, nel corso della Guerra di indipendenza [1776-1783], aveva utilizzato metodi di giustizia sommaria contro i ladri. I linciaggi divennero quasi una parte integrante della cultura negli stati del Sud, dove il razzismo era più radicato, ma non furono assenti neppure in altre aree del paese. A livello ideologico erano vissuti per molti versi come un’espressione della sovranità popolare e dell’autogoverno americano, al di fuori delle pubbliche istituzioni e non di rado con la complicità delle autorità locali (giudici, sceriffi, polizia). Tra i gruppi colpiti non mancarono gli italiani, spesso considerati pregiudizialmente come teste calde pronte alla sovversione, ma osteggiati anche per ragioni economiche, in quanto costituivano una manodopera a basso costo in forte concorrenza con quella locale. Uno dei casi più cruenti fu quello del 1891 a New Orleans, in Louisiana: furono undici le persone di origine italiana uccise, di cui otto avevano cittadinanza statunitense; le richieste di giustizia da parte del governo di Roma ebbero risultati molto modesti”.
Un paese che dalle sue origini si è risolutamente presentato come tollerante e rifugio degli oppressi, in realtà è sempre stato fortemente pervaso da correnti xenofobe; parte di un popolo, quello statunitense, nato come somma di invasioni, ha sempre temuto di scomparire travolto da una grande orda di stranieri.
Paradossalmente si possono ricordare le parole usate nei confronti dei Wasichu (i bianchi) da un sioux che si rivolse a dei Cheyenne prima della battaglia di Little Big Horn (25 giugno 1876):
“In un primo momento abbiamo avuto pietà di quei poveri vagabondi senza casa [i coloni] e abbiamo dato loro da mangiare” (AA.VV., L’America alla conquista del Far West, Vol. 2, Ferni, Ginevra 1973).
Negli anni Settanta del secolo scorso, su una popolazione di 200 milioni di abitanti, negli Stati Uniti c’erano solo 525000 “indiani”, ufficialmente cittadini di pieno diritto solo dal 1924. Ancora oggi i discendenti di Apaches e Sioux sono vittime di odiose forme di discriminazione razziale e, come i neri e gli ispanici, lottano ancora perché gli sia riconosciuta la loro dignità di uomini.
Va ribadito che le critiche rivolte al contenuto del Mago di Oz non si fondano su dati inoppugnabili, ma su speculazioni nate già poco dopo l’uscita del volume. È invece innegabile il razzismo di Baum nei confronti dei nativi. All’epoca del Massacro di Wounded Knee (29 dicembre 1890), ricordato come l’ultimo scontro tra gli “indiani” e il governo, l’americano pubblicò un articolo razzista sul giornale Saturday Pioneer, in cui chiamò “cani piagnucolosi” i nativi e ne sollecitò l’annientamento. Dopo la carneficina, Baum redasse un altro pezzo, in cui rimproverò l’esercito per aver usato – a suo avviso – metodi troppo blandi e invocò ancora che i “selvaggi” fossero “spazzati via dalla faccia della Terra”. (n.d.r. Vedi anche: articolo su AdnKronos).
Se a queste osservazioni volessimo aggiungere un’ulteriore aggravante, potremmo far notare come quella di The wonderful wizard of Oz, nella sua edizione integrale, sia una storia piuttosto violenta, in cui si assiste alla morte cruenta di vari animali. Nell’introduzione al Mago di Oz scritta da Baum nell’aprile del 1900 è auspicato il superamento delle vecchie fiabe popolari, ormai divenute storiche, ma inadatte ai nuovi tempi a causa di
“tutti gli episodi orribili e raccapriccianti inventati dai loro autori per sottolineare in ogni racconto una morale che spaventi”
ed è annunciata la nascita delle nuove “fiabe meravigliose”, poiché
“il bambino moderno cerca nei suoi racconti straordinari soltanto lo svago e fa con piacere a meno di tutti gli episodi sgradevoli”.
Evidentemente, per un uomo di quel tempo, la strage di una grande quantità di animali non era motivo di “angosce e incubi”, ma anche questo aspetto increscioso non deve impedirci di apprezzare il ciclo di Oz come opera letteraria frutto di un’altra epoca. Ogni prodotto intellettuale e testimonianza del passato andrebbe letta con il giusto distacco, senza emettere sentenze anacronistiche e invocare censure fuori tempo massimo.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Le accuse di razzismo al Mago di Oz, il libro per bambini di Lyman Frank Baum
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo Lyman Frank Baum Storia della letteratura
Lascia il tuo commento