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Storia della letteratura

Le ultime ore di Ignazio Silone nel dettagliato resoconto della moglie Darina Laracy

In uno dei cinque o sei libri che Ignazio Silone aveva già in mente da tempo e che si proponeva di scrivere pochi giorni prima della sua morte, avvenuta il 22 agosto del 1978, lo scrittore voleva far luce sulla morte di suo fratello Romolo e onorare il suo sacrificio. Delle sue ultime ore in vita racconta la moglie Darina Laracy in uno scritto.

Agnese Berardini
Agnese Berardini Pubblicato il 22-08-2023
Le ultime ore di Ignazio Silone nel dettagliato resoconto della moglie Darina Laracy

Copertina della prima edizione di "Severina", romanzo incompiuto di Ignazio Silone, uscito postumo nel 1981, a cura della moglie Darina. Accanto una foto dei due sposi, datata 1946 (dall’Archivio Ignazio Silone)

Il 22 agosto del 1978 si spegneva a Ginevra Ignazio Silone, un grande scrittore e un grande uomo, nato il 1° maggio del 1900 a Pescina (AQ) che, qualche giorno prima della morte, meno angustiato dai suoi gravi problemi di salute, aveva mostrato un rinnovato ardore per la scrittura.

Quando la moglie Darina Laracy decise di sistemare per la pubblicazione Severina (Mondadori, 1981), l’ultimo romanzo incompiuto di Ignazio Silone, vi allegò anche un suo scritto sulle ultime ore del marito e due fogli autografi trovati nell’aprile del 1977 nella sua scrivania in una busta a lei indirizzata, quando già i medici lo davano per spacciato.

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Il primo, che lei data con ogni probabilità agli anni dal ‘63 al ’66, eloquentemente titolato et in hora mortis nostrae, è una lucida dichiarazione di intenti dello scrittore di non volere alcuna cerimonia religiosa: né al momento della morte, né in seguito. Al tempo stesso è un accorato segno di riconoscenza per Cristo, dal quale lo allontanò «l’egoismo in tutte le sue forme, dalla vanità alla sensualità» e grazie all’insegnamento del quale si riprese da infermità fisiche, fame, predisposizione all’angoscia e alla disperazione.

Il cristiano senza Chiesa (come lo stesso grande scrittore amava definirsi) però, dichiarava anche:

«il “ritorno” non è stato possibile neanche dopo gli aggiornamenti del recente Concilio perché sulle verità cristiane essenziali si è sovrapposto [sic] nel corso dei secoli un’elaborazione teologica e liturgica d’origine storica che le ha rese irriconoscibili. Il cristianesimo ufficiale è diventato un’ideologia […]».

L’altro foglio autografo ‒ dalla carta ormai ingiallita ‒ risaliva a molti anni prima. Silone aveva disegnato la sua tomba su una vecchia fotografia del campanile di San Berardo (ritagliata da una rivista francese), esprimendo così la volontà di voler essere sepolto nella sua città natale, ai piedi di quel campanile:

«con una croce di ferro appoggiata al muro e la vista del Fucino in lontananza».

Le ultime ore di Ignazio Silone è un resoconto dettagliato, che Darina fa significativamente precedere da due citazioni, trovate tra gli appunti dello scrittore per Severina. La prima è di Rainer Maria Rilke:

«Signore concedi a ognuno la propria morte»

. La seconda è di Benedetto Croce

«Quando verrà, che almeno mi sorprenda al lavoro».

Entrambe sono indicative dell’effettiva esperienza che lo scrittore fece della sua morte.

Darina ci narra come il pomeriggio del 17 agosto del 1978, sceso nel giardino della Clinique Générale di Ginevra, dove era ricoverato dal 20 marzo di quell’anno, si era mostrato preoccupato per la salute di sua moglie e per i conti sicuramente salati per quelle cure che gli avevano così giovato. Darina aveva minimizzato le difficoltà, ma certo se avessero mandato Severina all’editore sarebbe stato più facile far quadrare i conti.

Il romanzo era quasi pronto, lo avrebbe rivisto forse per altre due settimane. Era ansioso di essere sottoposto a un’operazione che gli avevano proposto molto tempo prima e della quale non aveva più paura. Darina non ebbe il coraggio di rivelargli che non si sarebbe più potuta fare, per un errore di terapia risalente all’ottobre precedente, quando ancora non era a Ginevra. La sua paura non era tanto di morire, ma di perdere l’ultimo momento della vita, “quello più solenne” senza esserne cosciente.

E aveva anche paura dei lupi “umani” che avrebbero “divorato” Darina dopo la sua morte. E allora, le parlò dei lupi che sentiva ululare nella notte mentre era sotto le macerie del terribile terremoto che nel 1915 aveva colpito Pescina e la Marsica intera e che gli aveva portato via sua madre e dal quale era uscito vivo insieme a suo fratello Romolo.

La storia di Romolo, il fratello di Ignazio Silone

Per la prima volta, vincendo una naturale riluttanza a parlare di cose che lo toccavano profondamente, Ignazio parlò a lungo di suo fratello Romolo. Furono mandati a Roma in due collegi diversi e i contatti tra loro divennero sempre più difficili, perché le lettere che si scrivevano venivano sequestrate o censurate dai fascisti (da quando Ignazio era diventato comunista nel 1921).

In quella conversazione con Darina emerse, con evidenza ancora maggiore rispetto al passato, l’enorme peso della responsabilità per la morte di Romolo:

«Fu a causa mia che morì innocente, a ventotto anni, colpevole di essere mio fratello».

Sicuramente antifascista, ma non iscritto a nessun partito, Romolo fu ingiustamente arrestato per tentato regicidio e, quando al processo lo accusarono di essere comunista, si dichiarò tale, con l’unico intento di comportarsi come avrebbe fatto Ignazio. Condannato nel ‘31 a dodici anni di reclusione per appartenenza al partito comunista, il 28 ottobre 1932 nel carcere di Procida, morì per le conseguenze delle torture, della fame, del freddo e della tubercolosi che gli minava i polmoni.

«La perdita di mia madre nel terremoto fu un dolore terribile ma era stata causata da una calamità naturale. La prigionia e la morte di mio fratello sono rimaste il mio tormento intimo, perché non sarebbero accadute se non fosse stato per me. Perciò di Romolo non ho quasi mai parlato. È un genere di dolore difficile da comunicare».

Ignazio nel 1944 si recò a Roma per riportare i resti del fratello in Abruzzo, ma scoprì che nel 1941 essi erano stati messi in una fossa comune. La decisione di scrivere qualcosa su Romolo fu presa allora, ma quello restava “un dolore difficile da comunicare” e ciò lo spinse a rimandare e rimandare. Poi, nel ’68 uscì L’avventura di un povero cristiano (che gli fruttò il Campiello). Neppure allora riuscì a scrivere quel libro, né altri cinque o sei che aveva nella testa a causa di una diagnosticata arteriosclerosi del cervello.

A pochi giorni dalla morte si riaffacciò quel desiderio antico di scrivere finalmente qualcosa su Romolo:

«per cercare di ristabilire tutta la verità e perché rimanesse qualche ricordo del suo sacrifizio».

Aveva in mente altri cinque o sei libri da scrivere: non romanzi, come si evince sempre dall’ultima conversazione trascritta da Darina. Forte fu anche il monito a recuperare tutto il materiale prestato e mai più chiesto indietro: manoscritti, dattiloscritti con le sue correzioni a mano, alcuni inediti in italiano, prime edizioni ora introvabili, diverse stesure di alcuni romanzi, collezioni di riviste dell’epoca svizzera alle quali aveva collaborato, libri, lettere, articoli. E soprattutto, il suo archivio letterario:

«l’unica cosa concreta che ho da lasciare ai posteri: la materia prima del lavoro di uno scrittore».

Le ultime ore di Ignazio Silone

Il 18 agosto fu il suo ultimo giorno vissuto in piena coscienza e fu passato al lavoro fin dalle 7:00 del mattino, tra appunti e fogli di carta. Dopo la colazione, varie terapie e la lettura dei giornali, nel pomeriggio ‒ dalle 14:00 alle 17:00 ‒ si dedicò a Severina, rinunciando alla passeggiata pomeridiana; poi prese dei fogli di carta bianca che cominciò a scrivere con sempre maggiore rapidità e con un sorriso beato sul volto, come se fosse in estasi.

Alle 18:00 gli portarono la cena, assaggiò soltanto; poi, dal bordo del letto si spostò sulla poltrona.

«Era come se si compisse un rito solenne. Ad alta voce, molto chiaramente, scandendo le parole egli disse: “Maintenant c’est fini. Tout est fini. Je meurs” Poi accostò le mani alle tempie e gemette quattro volte e “Ohh – Ohh – Ohh- Ohh”. Quindi chiuse gli occhi e si afflosciò nella poltrona. […] Ignazio Silone era riuscito, con uno sforzo supremo, a realizzare il suo desiderio: morire con dignità e consapevolezza».

Erano le 18:30 ed entrò in un coma profondo; aprì solo una volta gli occhi e guardò il suo medico che lo chiamava per nome. Alle 04:15 del 22 agosto 1978 il suo cuore si fermò per sempre.

La tomba di Ignazio Silone a Pescina

Pescina Tomba Ignazio Silone Marsica

Ignazio Silone riposa nei pressi del luogo indicato nel suo disegno, ai piedi del campanile di San Berardo:

«il punto preciso indicato da Silone nel suo disegno non esiste più, essendo crollato da diverso tempo»

come ci informa Darina – che aggiunge che anche se la tomba è sicuramente più grande di quella del disegno gli sarebbe certamente piaciuta.

A poca distanza c’è una targa in pietra, commemorativa di Romolo con le date di nascita e morte e la dicitura: morto innocente nelle carceri di Procida.

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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Le ultime ore di Ignazio Silone nel dettagliato resoconto della moglie Darina Laracy

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