

Nella giornata di oggi, 21 aprile, per festeggiare il Natale di Roma abbiamo scelto di rileggere SPQR, una poesia di Giuseppe Gioacchino Belli che, con una feroce ironia, gioca sul significato del celebre acronimo che ancora oggi possiamo vedere inscritto su tombini e nasoni, su colonne, statue e palazzi della Capitale.
Precursore e ispiratore di Trilussa, Giuseppe Gioacchino Belli (Roma, 7 settembre 1791 – Roma, 21 dicembre 1863) fu un poeta che, rifacendosi anche alla più antica tradizione delle pasquinate, utilizzò il romanesco per parlare al, e del, popolo di Roma, dedicando più di duemila sonetti a descrivere la vita della sua città. Oltre a ritrarre momenti della vita delle classi più umili e a realizzare quadretti d’ambiente, fu maestro di una pungente satira che ebbe tra i suoi bersagli preferiti non solo le debolezze dei popolani ma, soprattutto, i vizi e le bassezze dei nobili e del clero.
Le quattro lettere SPQR, qui cantate da Giuseppe Gioacchino Belli, sono state considerate per secoli, e sono tutt’oggi, il simbolo della grandezza della città eterna. Dobbiamo però guardare alla storia della Roma antica se ne vogliamo comprendere il significato: secondo la tesi più accreditata si tratterebbe dell’abbreviazione della dicitura «Senatus PopulusQue Romanus», mentre per altri starebbe per «Senatus Populus Quirites Romani». C’è poi anche una curiosità storica da ricordare a proposito della sigla SPQR: si narra, infatti, che l’acronimo fosse già in uso presso i Sabini per riassumere la frase «Sabinis Populis Quis Resistet?» (Chi può opporsi al popolo sabino?); quando i romani riuscirono a sconfiggere i sabini, si appropriarono anche del loro motto.
Nella giornata in cui ricorre il Natale di Roma, riscopriamo, allora, insieme testo e significato della poesia S.P.Q.R. di Giuseppe Gioacchino Belli.
S.P.Q.R. di Giuseppe Gioacchino Belli: il testo originale della poesia in romanesco
Quell’esse, pe, ccu, erre, inarberate
sur portone de guasi oggni palazzo,
quelle sò cquattro lettere der cazzo,
che non vonno dì ggnente, compitate.
M’aricordo però cche dda regazzo,
cuanno leggevo a fforza de frustate,
me le trovavo sempre appiccicate
drent’in dell’abbeccé ttutte in un mazzo.
Un giorno arfine me te venne l’estro
de dimannanne un po’ la spiegazzione
a ddon Furgenzio ch’era er mi’ maestro.
Ecco che mm’arispose don Furgenzio:
«Ste lettre vonno dì, ssor zomarone,
Soli preti qui rregneno: e ssilenzio».
S.P.Q.R. di Giuseppe Gioacchino Belli: la parafrasi in italiano
Quelle esse, pi, qu, erre, erette
sul portone di quasi ogni palazzo,
quelle sono quattro lettere insignificanti
che non vogliono dir niente, lette separatamente.
Mi ricordo però che da ragazzo,
quando leggevo a suon di frustate,
le trovavo sempre appaiate
come in un mazzo dentro al primo libro di lettura.
Un giorno alla fine mi venne il desiderio
di chiederne la spiegazione
a don Fulgenzio che era il mio maestro.
Ecco cosa mi rispose don Fulgenzio:
«Queste lettere significano, signor somarone,
Qui regnano solo i preti: e silenzio».
Analisi e significato della poesia S.P.Q.R. di Giuseppe Gioacchino Belli
Giuseppe Gioacchino Belli visse tutta la sua vita nella Roma papalina, uno stato a tutti gli effetti, dove un papa re esercitava un potere tutt’altro che spirituale e il popolo versava, nella maggior parte dei casi, in condizioni di arretratezza e miseria.
L’io lirico che parla in prima persona nel componimento potrebbe essere il poeta, che guarda alla sua giovinezza e ne ricorda un dettaglio, ma anche un qualsiasi altro adolescente del popolino che volge lo sguardo ai palazzi dei nobili e ai loro imponenti stemmi. Del protagonista di questo sonetto, il Belli offre un ritratto verace e senza fronzoli: lo dimostra il suo linguaggio scurrile (v. 3) dove la parolaccia illustra bene il suo tono sincero, e i metodi educativi, tutt’altro che ortodossi, che gli venivano imposti (v. 6): le frustate che dovevano servire per domare il suo ribellismo e per imprimere meglio quelle nozioni che, come spiega il proseguo della poesia, susciteranno, poi, curiosità e domande.
Possiamo immaginare questo giovane riottoso, dallo sguardo perspicace e dai modi spicci, che si aggira per le vie della capitale: qui era la norma che vi si ritrovasse, in bella mostra e a caratteri ben leggibili, l’iscrizione S.P.Q.R., una serie di lettere che, se prese separatamente, per l’ignaro turista che ancora oggi percorre le vie del centro storico che portano i nomi dei mestieri e degli artigiani, non significano niente.
Quando il popolano vede quella sigla, però, è quasi stordito da un ricordo che riaffiora nella sua mente (v. 5): ricorda probabilmente l’infanzia e i primi anni di scuola quando leggeva l’abbecedario (v. 8), il primo libro di lettura che serviva per imparare vocali e consonanti, e trovava sempre quelle quattro lettere tutt’attaccate.
Alla fine, giunge alla mente dell’ingenuo adolescente un’ispirazione: decide di rivolgersi al maestro, appellato riverentemente col titolo di “don” (vv. 11 e 12), per tributargli un onore immeritato, al fine di svelare l’arcano e comprendere il significato di quella stramba parola.
Per l’educatore la risposta è così lapalissiana che solo un somaro, come il suo alunno, non poteva conoscerla (v. 13). Logica vorrebbe che il maestro citasse qui la celebre frase Senatus PopulusQue Romanus, che conosce chiunque abbia qualche reminiscenza del latino scolastico, Giuseppe Gioacchino Belli, però, capovolge qui il significato della frase simbolo di Roma, con un espediente funzionale all’esercizio della sua satira sarcastica: regnano solo i preti nella città eterna, all’inizio dell’Ottocento (v. 14).
È una presa d’atto quasi tombale, non ammette repliche né, soprattutto, critiche, come dimostra la chiusa del componimento (“e ssilenzio”, v. 14): il ragazzo non può far altro che accettare una realtà e una storia che non sembrano ammettere alcuna possibilità di progresso o redenzione.
Analisi metrica e stilistica della poesia
Dal punto di vista linguistico la scelta del dialetto romanesco, con i suoi tipici raddoppiamenti fonosintattici (consonanti doppie, anche all’inizio delle parole), rende evidente la volontà del poeta di confondersi con la voce comune del popolo che, d’altra parte, è anche il destinatario di questo sonetto.
Anche la scelta di porre il motto S.P.Q.R. all’inizio del componimento, nel titolo, non fa che ribadire quanto possenti siano queste lettere e quanto valore abbiano nell’immaginario di un abitante della capitale: se guardiamo al testo nella sua interezza campeggiano su tutti i versi successivi, come uno stemma posto al di sopra del portone di un palazzo, ma sembrano dominare anche tutta la città e sui suoi abitanti, quasi come un nume tutelare.
Per quanto riguarda la struttura poetica Belli opta qui per il sonetto, il metro che ha sempre privilegiato, che consta di due quartine e due terzine, sempre di endecasillabi, con il seguente schema rimico: ABBA BAAB CDC EDE.
Al lessico dialettale Giuseppe Gioacchino Belli associa un tono schietto e colloquiale testimoniato, ad esempio, anche dai frequenti enjambement che rallentano l’andamento del componimento, e ben si prestano a dare forma poetica al ricordo descritto, e dal discorso diretto, collocato nella parte finale per meglio evidenziare il significato satirico dell’intera poesia.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “SPQR” di Giuseppe Gioacchino Belli: una poesia per il Natale di Roma
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