Procopio di Cesarea (490-560 ca.) è stato uno storico bizantino. Divenuto nel 527 consigliere e segretario del generale Belisario (500 ca.-565), ne seguì le campagne sino al 540. Tornato a Costantinopoli nel 542, fu testimone anche della grande pestilenza che colpì la città.
I suoi studi giovanili lo fornirono di una cultura ampia e varia, e posero in lui il seme di quell’attento spirito critico che contraddistinse tutti i suoi libri.
La guerra gotica
Giustiniano I e la renovatio imperii
L’opera più ricordata di Procopio è senza dubbio La guerra gotica, un resoconto dettagliato del conflitto sostenuto dall’Imperatore Giustiniano (482-565) contro gli Ostrogoti nella Penisola Italiana. Questo testo rappresenta una fonte imprescindibile per studiare la campagna militare condotta dai Bizantini; la politica di Giustiniano era incentrata sull’ideale della renovatio imperii, ossia sul desiderio di restituire agli antichi domini dei romani i loro veri confini, la loro unità amministrativa, culturale e religiosa.
Giustiniano I, detto il Grande, regnò con la collaborazione di sua moglie Teodora (497-548) e sotto alla loro guida, grazie alla preparazione di una coppia di generali eccellenti quali furono il geniale Belisario e l’eunuco di origine armena Narsete (478-574), Bisanzio vinse i Vandali in Africa nel 533, riconquistò Roma e nel 554 sconfisse i Visigoti in Spagna. A questo imperatore viene subito associata l’importante opera di codificazione del diritto romano che porta il suo nome, sotto di lui tutte le leggi furono riunite nel Corpus iuris civilis (535).
Una narrazione equa e imparziale
Nella sua narrazione storica, però, Procopio non cadde mai in facili elogi del monarca e tenne toni distaccati e imparziali. Con equità, lo scrittore descrisse Teodorico (454-526) come un buon capo politico che cercò di mantenere l’ordine in Italia e gli riconobbe i suoi meriti:
"Tiranno era Teodorico di nome, ma di fatto era un vero e proprio imperatore, non punto inferiore ad alcuno di quanti in quella dignità ne’ primi tempi di essa si distinsero: e grande affetto portarono a lui e Goti e Italiani".
Barbari e italiani convissero, notò Procopio, ma (almeno in quest’epoca) non si mescolarono mai completamente. Durante la guerra greco-gotica, in svariate occasioni, emersero infatti anche gli odi che dividevano le due comunità che popolavano il nostro paese; lo scontro epocale si protrasse dal 535 al 553 e fu costellato di orrori e devastazioni che Procopio documentò attentamente per i posteri.
Orrori e devastazioni delle carestie
La Penisola fu colpita da una pesante carestia che impoverì anche le regioni più ricche. L’Emilia offriva scenari desolanti e anche la Toscana – le cui campagne, normalmente, non sono certo brulle – fu ridotta alla fame:
"I Toscani; de’ quali quanti abitavano i monti macinando ghiande di quercia come grano, ne faceano pane, che mangiavano. Ne avveniva naturalmente che i più fossero colti da malattie d’ogni sorta, solo alcuni uscendone salvi".
Infine nel Piceno:
"Dicesi che non meno di cinquantamila contadini romani morissero di fame, ed anche molti di più, al di là del golfo Ionio. Quale aspetto avessero ed in qual modo morissero, sendone stato io stesso spettatore, vengo ora a dire. Tutti divenivano emaciati e pallidi, e la carne loro, mancando di alimento, secondo l’antico adagio consumava se stessa, e la bile, prendendo predominio sulle forze del corpo, dava a questo un colore giallastro. Col progredire del male ogni umore veniva meno in loro, la cute asciutta prendeva aspetto di cuoio e pareva come aderisse alle ossa, ed il colore fosco cambiatosi in nero li facea parere come torce abbrustolite".
Presero a circolare addirittura racconti terrificanti, che lo storico non trascurò di annotare:
"Taluni furono che sotto la violenza della fame mangiaronsi l’un l’altro; e dicesi pure che due donne in certa campagna al di là di Rimini mangiassero diciassette uomini; poiché, sendo esse sole superstiti in quel villaggio, coloro che di là viaggiavano andavano a stare nella casa da loro abitata, ed esse, uccisili mentre dormivano se ne cibavano. Dicono poi che il decimottavo ospite, svegliatosi quando queste donne stavano per trafiggerlo, balzato loro addosso, ne risapesse tutta la storia, ed ambedue le uccidesse".
Considerazioni sugli eserciti
Durante le battaglie e le tregue, i popoli barbari non si fecero scrupoli a lasciarsi comprare ora da questo ora da quello schieramento e offrirono i loro servigi militari sia ai Bizantini che ai Goti, ma Procopio giunge alle stesse considerazioni che, secoli più tardi, furono esposte da Machiavelli ne Il Principe (1513): gli eserciti di soldati stranieri, se mossi solo dal denaro, non combattono veramente con valore (XII. Di quante ragioni sia la milizia e de’ soldati mercenari).
Molte avanzate degli eserciti si persero peraltro nel disordine e nella razzia:
"Un Mauretano, scorto uno di questi [nemici] che era ornato d’oro, afferrandolo pei capelli tirò via il cadavere per ispogliarlo; ma un Goto, scoccatogli un dardo, lo colse nei muscoli posteriori di ambedue le gambe, legandogli così i piedi col dardo rimastogli fitto. Non per questo però meno il Mauretano, tenendo il cadavere pei capelli, lo tirava".
Le Storie segrete
Per completare il giudizio storico offerto da Procopio, tuttavia, occorre confrontarsi anche con un’altra sua opera: le Storie segrete (550), il libro che egli scrisse contro Giustiniano e Teodora. In questo testo, divulgato solo dopo la sua morte, l’autore demonizzò la coppia imperiale e, sentendosi pienamente libero di esprimere le sue opinioni, non si trattenne da alcuna offesa.
"Di molti fatti riferiti nei libri precedenti» si legge, «sono stato costretto a tacere le cause, e il motivo è che non si poteva riferirne debitamente, vivendone ancora i responsabili. Non potevo occultarmi al gran numero degli informatori; scoperto, non sarei scampato a morte atroce".
Apprendiamo allora che secondo lo scrittore de La guerra gotica Giustiniano non era stato affatto un “restauratore”, bensì un distruttore. Le guerre sfigurarono l’Africa settentrionale in maniera irreparabile:
"Erano ottantamila i Vandali che non molto prima avevano costì prese le armi; e chi potrebbe avanzare un numero per le loro donne, i bambini, i servi? Ed è rimasto sulla terra qualcuno che sappia valutare quanti erano in Libia un tempo residenti in città, quanti coltivavano la terra, quanti attendevano ai commerci marittimi? Eppure io potei vederli, con questi miei occhi. E di gran lunga superiore era il numero dei Mauritani laggiù residenti, spariti tutti, con le loro donne e la figliolanza".
L’Italia non fu annichilita tanto dalle invasioni barbariche, quanto dalla riconquista bizantina:
"Non poteva certo bastargli distruggere solo l’impero romano; perciò [il sovrano] volle provarsi a conquistare la Libia e l’Italia – unicamente perché, insieme ai suoi sudditi di prima, fosse parimenti sterminato chi viveva laggiù".
Sicuramente è una disamina interessante quella della Arcana historia, tenuta in seria considerazione da diversi studiosi, ma ovviamente, se la si prende così come è stata presentata, resta una versione di parte.
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