Nelle numerose versioni cinematografiche e televisive, il volto di Maigret cambia ripetutamente. Riservando qualche sorpresa. Un’estemporanea divagazione estiva sul poliziotto più letto del mondo, sull’immaginario letterario e filmico e sul tema (simenoniano) dell’infedeltà.
Se mi chiedessero di compilare una playlist dei libri che nella mia carriera di lettore dilettante hanno lasciato una traccia profonda nella memoria e nel mio immaginario (non me lo ha mai chiesto nessuno e dunque provvedo d’ufficio), non avrei esitazioni: al teatro e ai racconti di Cecov; alle novelle pirandelliane e alle noiose (non per me) peripezie manzoniane di Renzo e Lucia; ai drammi shakespeariani e all’epopea moderna dei grandi narratori americani; e ancora ai faits divers, le cronachette, i saggi e i romanzi civili e filosofici di Sciascia sotto specie di poliziesco , aggiungerei senza esitazione un esemplare originale di detective letterario: il Maigret di Georges Simenon. E comincerei dal prediletto “Maigret e l’affittacamere”, il mio primo incontro con il commissario del Quai des Orfevres, in quella vecchia edizione economica degli Oscar gialli Mondadori acciuffata quasi per caso da una cesta colma di offerte a metà prezzo in un magazzino della Standa, dove da adolescente mi rifugiavo in qualche non rara mattinata di volontario auto esilio dalla scuola, per scampare a un’interrogazione di matematica. Erano belle quelle edizioncine dalla copertina traslucida con le foto di angoli e scorci della Ville Lumiere e sulla quarta, un piccolo medaglione dell’autore in posa davanti alla macchina da scrivere con l’immancabile pipa e la solita, rituale, didascalia di accompagnamento:
L’autore dei romanzi polizieschi più letti nel mondo.
E più in basso:
Un modo indimenticabile per vivere Parigi e “una certa” provincia francese.
La prima frase, poco più che uno slogan, serviva, se ce ne fosse stato bisogno, ad invogliare, ma la seconda era la rivelazione; di un mondo, di un modo di sentire, non solo Parigi e la provincia francese, ma quella più remota e sconfinata della condizione, della coscienza umana. Mi sono innamorato, grazie a quella didascalia, di Simenon e del suo ineffabile commissario, al punto da seguirlo in ogni sua vicenda, ricercando nelle librerie e poi sul web tutte le edizioni esistenti in commercio, circumnavigando in lungo e in largo quel mondo in apparenza immisurabile che sono le inchieste, i romanzi e le short stories del poliziotto più letto nel mondo. Tanto da avere due o addirittura tre edizioni diverse della stessa storia. Fino a riempire un’intera scansia della mia totemica biblioteca personale, in cui alle copertine mondadoriane semplici e suadenti si alternano le rilegature raffinate delle più recenti edizioni della collana Adelphi, che pare inesauribile.
A corredare questa collezione magnifica, un’altra scansia del mio tempio di carta è tutta dedicata a vecchi vhs e a più recenti dvd dedicati al Maigret cinematografico e televisivo. E così, al volto impassibile del commissario nato dalla pipa di Simenon, dapprima immaginato con la mia fantasia di lettore, poi sbirciato dall’illustrazione di copertina di qualche venerabile edizione d’anteguerra, Maigret è diventato nel tempo una presenza familiare, fisicamente definita e cangiante, man mano che sullo schermo del videotape ho potuto assistere alla sua incarnazione nel volto squadrato di Jean Gabin, nell’inerzia sorniona di Bruno Cremer, nel faccione pacioso e finto burbero di Gino Cervi e di recente (ma, che inaspettata delusione) dell’attore inglese Rowan Atkinson, temporaneamente in libera uscita (ahimè non del tutto), dalla maschera grottesca e irridente di Mister Bean.
Infine mi sono imbattuto (proprio così: in Maigret, fatalmente, ci si imbatte, come in un incontro fatale a un bivio qualunque del nostro cammino) in un raro dvd, con Jean Richard che veste i panni di Maigret. L’episodio? Neanche a dirlo: "Maigret e l’affittacamere". Bravo attore, questo Richard, bella presenza scenica, ma con due handicap che lo distanziano dal celeberrimo commissario. Una cadenza e postura da ispettore di poliziesco americano, innanzitutto (l’incipit del film sembra uguale all’inizio di un episodio de "Le Strade di San Francisco) e per giunta, occhi troppo vivaci, mobili, sensuali, per somigliare a un commissario originario della profonda provincia francese che nell’originale simenoniano viene spesso descritto con gli “occhi di una fissità bovina”, che a tratti fa dubitare persino della sua intelligenza. Eppure quella fissità è il diaframma attraverso cui Maigret osserva il mondo, esercitando con pazienza il suo metodo induttivo che gli consente di immergersi in un contesto (nel fenomeno) a tal punto da ricavarne un’esperienza che lo indirizza alla verità.
È la fissità che si rispecchia nello sguardo di Bruno Cremer, a parer mio il più fedele, anonimo e pertanto fededegno dei Maigret televisivi. Proprio quello sguardo che manca in Richard, tanto più in un episodio tra i più belli del ciclo, in cui la vicenda si sviluppa in un unico ambiente, la pensione parigina, sorta di quinta teatrale della infinita commedia umana, in cui osservazione e riflessione ristagnano a lungo prima di giungere allo scioglimento. Pare che Simenon avesse qualche legittima riserva su Richard, il Maigret più longevo e che adorasse invece Gino Cervi, da mezzo secolo identificato persino sulle copertine dei romanzi con Maigret, fino a coincidere per intere generazioni con l’immaginario più familiare del commissario francese. Un Maigret bonario e alquanto bolognese. Ed è giusto. Forse per Simenon quella versione televisiva bella e infedele di Landi e Cervi (e all’ombra di un produttore esecutivo delegato dalla Rai, un certo Camilleri, che avrebbe fatto tesoro di quell’esperienza) aveva il pregio di prolungare il carisma e la longevità del personaggio in un orizzonte più ampio e popolare, nell’eternità dei classici. E forse il segreto di ogni versione, efficace e sincera, è nella capacità di tradire il modello, trasformandolo e reinventandolo dopo averne compreso e assimilato le costanti di senso. È il segreto dei grandi traduttori, dei grandi poeti. E il cinema non è altro che un prolungamento di senso, una reinvenzione, di quanto nella poesia, nella pittura, nell’immagine è già dato una volta per sempre. Quando si tenta la strada del calligrafismo, fine a sé, si incorre facilmente nel rischio della brutta copia. Ed è ciò che contraddistingue il Maigret di Richard, a cui resta, in fin dei conti, solo la pipa.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il personaggio di Maigret: dai libri di Simenon ai film
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