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Storia della letteratura

E sto muta sull’orlo della vita: testo e commento della poesia di Patrizia Valduga

Leggiamo insieme il testo inaugurale di "Requiem", una raccolta in progress di Patrizia Valduga, una delle voci più originali e profonde della lirica contemporanea.

Isabella Fantin
Isabella Fantin Pubblicato il 14-07-2022
E sto muta sull'orlo della vita: testo e commento della poesia di Patrizia Valduga

E sto muta sull’orlo della vita è il testo inaugurale della brevissima raccolta Requiem di Patrizia Valduga, scritta in memoria del padre defunto a seguito di una malattia importante. Con un dettato lessicale di accorta semplicità, impreziosito da ricami fonici, l’autrice cerca un antidoto al suo dolore. Come figlia che, uscita troppo presto da casa, si rammarica di non aver partecipato alla vita del padre privandolo del suo affetto. Come figlia che ha bisogno di mantenerlo vivo con la poesia e soprattutto nella poesia, in cui l’anima dell’uomo sembra incarnarsi.

E sto muta sull’orlo della vita: testo

“Anima, perduta anima, cara,
io non so come chiederti perdono,
perché la mente è muta e tanto chiara
e vede tanto chiaro cosa sono,
che non sa più parole, anima cara,
la mente che non merita perdono,
e sto muta sull’orlo della vita
per darla a te, per mantenerti in vita. (Requiem, I)”

Significato del testo

L’io lirico, coincidente con l’autrice, chiede perdono al padre defunto per la sua mancata devozione filiale, essendosi allontanata giovanissima da casa. Lo stato d’animo prevalente è il silenzio, suggerito anche dal titolo che corrobora il testo. Il silenzio è accompagnato dal dolore del pentimento e dal desiderio di essere perdonata. Così rimane ferma e muta “sull’orlo della vita” (Non può parlare? Non riesce a farlo? Oppure la parola è insufficiente per esprimere l’ineffabile?). Può mantenere vivo il padre nel ricordo, grazie alla poesia e nella parola stessa.

La raccolta Requiem

La poetessa e traduttrice Patrizia Valduga, nata nel 1953 in provincia di Treviso e milanese d’adozione, non ha bisogno di presentazioni. Requiem, però, da cui è tratta la poesia in esame, ha una storia così particolare, intima e struggente che merita di essere raccontata e ricordata.

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Nel 1992 viene pubblicata la raccolta dal titolo Requiem, composta da 28 ottave (un’ottava corrisponde a una lirica) in un’edizione privata di 73 esemplari. A colpire è il numero di testi e copie: qual è il significato? Il padre della poetessa, deceduto il 2 dicembre 1991, trascorse 28 giorni in ospedale prima di spegnersi a 73 anni. La raccolta, pertanto, è dedicata a lui e a partire dal 1994, edita da Marsilio, è stata aggiornata anno dopo anno con l’inserimento di una nuova ottava, da intendersi come microtesto di anniversario.

L’intento di questa raccolta in progress non è solo quello di commemorare la morte del genitore, ma di mantenere il dialogo con lui, tracciando al contempo un bilancio provvisorio della propria esistenza, aggiornato anno dopo anno. A me sembra un’operazione raffinata, intima e sofferta.

Analisi metrica

Il testo è formato da una sola ottava. L’ottava è una strofe o stanza di 8 endecasillabi rimati secondo lo schema ABABABCC. Già adottata da Boccaccio nel Filostrato, è la forma discorsiva tipica dei poemi cavallereschi di Boiardo, Ariosto, Tasso; dei poemi eroicomici alla Tassoni e della Batracomiomachia di Leopardi. È una sorta di isola metrica, perché ogni ottava contiene un fatto, un’azione autonomi e compiuti. Non a caso il Baldacci la definisce “una camera carceraria”, in cui modellare lo slancio poetico in termini formali, contenutistici o esistenziali. Come recita la Treccani:

“Lo schema dell’ottava – iterabile indefinitamente – è per sua natura chiuso, e determina perciò il possibile ‘isolamento’, anche sintattico, di ciascuna stanza, sottolineato dalla rima baciata del distico conclusivo.”

Ritengo che il lettore, superata la sorpresa iniziale, colga appieno il senso di questa scelta metrica controcorrente e, a suo modo, minimalista. Suggellare il recupero della tradizione – messo in atto dall’esordio con Medicamenta del 1982 – a fronte di sperimentalismi espressivi pluridirezionali. Dare voce a un carotaggio introspettivo sentito come intima necessità.
Questa intervista di Patrizia Valduga mi sembra un interessante documento della sua sensibilità poetica e recitativa.

Figure retoriche principali

  • Epanalessi: detta anche anadiplosi, è una figura retorica di suono. Consiste nella ripetizione di una parola nello stesso verso per intensificarne il concetto. “Anima” compare due volte nel v.1: è l’anima del padre defunto cui l’autrice si rivolge in modo diretto e affettuoso, contrita per averlo privato della sua devozione filiale.
  • Paronomasia: detta anche annominazione, è una figura retorica di suono. Consiste nell’accostamento di parole dal suono simile, ma dal significato differente. Serve a creare sottotraccia un vincolo di significato, in questo caso tra “perduta” al v.1 e “perdono” al v.2. Esprime il pentimento per essere stata una figlia assente e il desiderio di perdono che non verrà appagato. Un dolore, questo, che si può lenire solo con la poesia. Strumento per elaborare il lutto e per mantenere vivo il ricordo del padre. È impossibile non pensare a Foscolo, anche per l’assenza di una soluzione religiosa.
  • Allitterazione: figura retorica di suono volta a generare omofonia con la ripetizione di suoni simili. “La Mente è Muta” al v.3
    Poliptoto: detto anche variazione, è una figura retorica di suono che consiste nella ripresa di una parola, anche morfologicamente mutata, con funzione sintattica diversa. Quando a cambiare sono i tempi verbali, si ha un poliptoto temporale. Ai vv. 3 e 4 osserviamo “chiaro” e “chiara”.

E sto muta sull’orlo della vita è una lirica di folgorante brevità. L’impossibilità di sciogliere nodi irrisolti si scontra con il desiderio di superare la separazione definitiva della morte. L’ autrice lancia un grido di dolore disciplinato con inflessibile chiarezza. Forse solo la poesia può aspirare alla riconciliazione di tutti i momenti inconciliabili della nostra esistenza.

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