Accade spesso che la psicologia moderna prenda in prestito le storie tramandataci da alcuni miti greci per spiegare le patologie o le sindromi contemporanee.
È il caso del mito di Procne, la sfortunata protagonista di un amore infelice e irrealizzato, a causa del quale subisce le peggiori torture. Si possono trovare diverse versioni del mito; in questo scritto intendo seguire quella che lo scrittore Robert Graves (1895 - 1985) ha fornito nel saggio "I miti greci", citando dello stesso alcune frasi.
Tutto ha inizio con Tereo, l’eroe figlio di Ares, il dio della guerra, che regnava sul territorio di Dauli, in Tracia, nei pressi del monte Parnaso.
In quel periodo Atene stava combattendo una dura guerra contro Labdaco, re di Tebe. Pandione, che regnava su Atene, chiese aiuto a Tereo per fronteggiare il nemico, e in seguito decise di sdebitarsi del favore concedendogli la mano di sua figlia Procne.
Si dà il caso che Pandione avesse anche un’altra figlia dalla bellezza incantevole e dalla voce soave, Filomela, della quale Tereo subito si invaghì. Per poterla possedere, decise di mettere a punto un piano diabolico: si recò ad Atene per comunicare al re la morte della figlia Procne e chiedere in sposa la sorella Filomela.
Ottenuto l’assenso da parte del padre, Tereo si impadronì di Filomela, rinchiuse la moglie Procne fra gli schiavi e, per accertarsi che non potesse parlare, le tagliò anche la lingua.
La messinscena doveva però essere completata; con questo fine, e per evitare che la cercasse, Tereo riferì a Filomela che la sorella era morta. Naturalmente l’uomo non riuscì a contenersi, e indusse la giovane all’intimità prima che il matrimonio fosse celebrato. Un comportamento non certo rispettoso, soprattutto per i tempi.
Ma come si sa, il mito presenta sempre ai deboli un’inaspettata via d’uscita contro gli oppressori. E fu così anche per la povera Procne, che si salvò grazie al suo elevato talento di tessitrice. Malgrado fosse isolata dal mondo, riuscì a tessere un abito dove erano rappresentate tutte le vicende della sua storia. Una scritta avvertiva, inoltre, che si trovava rinchiusa fra gli schiavi.
L’abito fu recapitato alla sorella Filomela come veste nuziale; la ragazza, dopo aver osservato bene quelle rappresentazioni, capì tutto, quindi cercò e infine liberò la povera sorella.
Anche in questo caso, il mito ha un significato che spesso ritorna: il ragionamento, l’astuzia, ovvero la metis, vincono sempre sulla violenza primitiva, sull’ardore insano, senza limiti e senza scrupoli. Ce lo insegna anche la storia di Ulisse, definito l’eroe dal "multiforme ingegno", che grazie alla sua astuzia riuscì a battere il gigante Polifemo, nel racconto rappresentato come l’emblema della trivialità.
Tornando alla storia, non appena Filomela ritrovò la sorella gemette queste parole:
Potessi vendicarmi di Tereo, che ti disse morta e mi sedusse!
Procne, che non poteva rispondere perché non aveva più la lingua, mise in atto il suo desiderio di vendetta. Prese Iti, il figlio avuto da Tereo, lo "sventrò e lo fece bollire in un calderone di rame, per darlo in pasto al marito al suo ritorno".
Tereo mangiò quindi la carne del proprio figlio e, quando se ne accorse, inseguì le due sorelle, ma non riuscì ad ucciderle. Infatti, per volere degli dei, tutti e tre furono trasformati in uccelli.
La sindrome di Procne in psicologia
La psicologia ha rivisto in questo mito alcuni caratteri tipici della donna maltrattata, che subisce violenza e abusi da parte del partner, ma anche segregazione.
Nel racconto la violenza si palesa sotto varie sfaccettature: la prigionia di Procne (la vittima non deve uscire dal controllo dell’oppressore), il taglio della lingua (non deve parlare senza il suo consenso, e quindi, poiché la comunicazione rende umani gli esseri umani, non deve essere persona, ma "cosa"), la violenza arrecata a Filomela (un’ulteriore manifestazione di depersonalizzazione dell’altro).
Andando oltre il mero dato letterale, gli psicologi ravvisano nel racconto una "proiezione" dei meccanismi della violenza domestica, che a volte vedono la donna "complice" del suo aguzzino, invece che impegnata in una fuga o in un allontanamento.
Si sente spesso parlare di donne maltrattate che rimangono a fianco dei carnefici, vittime di un rapporto malato che le porta a non liberarsi dell’orco, a non denunciarlo.
In altre parole, la sindrome di Procne sarebbe quello che, volgarmente, viene definito "rapporto vittima-carnefice", che oltre ad essere fra i più dolorosi, e anche fra i più restii a spezzarsi.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Che cos’è la sindrome di Procne o della "donna maltrattata"? La spiegazione arriva dal mito
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo Psicologia Significato di parole, proverbi e modi di dire
Lascia il tuo commento