

A volte può accadere che una frase innocua e addirittura edificante, per una serie di motivi non sempre facilmente spiegabili, finisca per stravolgere il proprio significato originario diventando involontariamente il simbolo di un’indimenticabile bruttura.
È quanto successo all’espressione tedesca Arbeit macht frei, in italiano il lavoro rende liberi, che quasi tutti ignorano come titolo di un’opera letteraria ma conoscono come la frase impressa sui cancelli dei campi di concentramento della Seconda Guerra mondiale.
Da decenni il motto simboleggia il destino beffardo e crudele che spesso si cela in quelle situazioni che, dietro l’apparente normalità, violano in realtà i principi stessi della convivenza umana e civile, come nella Shoah.
In occasione del Giorno della Memoria, che si celebra ogni anno il 27 Gennaio, ripercorriamo brevemente la storia della frase Arbeit macht frei e vediamo qual è il suo significato.
“Arbeit macht frei”: l’opera letteraria da cui è tratta la frase
La frase impressa sui cancelli di entrata e di uscita dei lager tedeschi fu presa in prestito dall’omonimo titolo del romanzo dell’intellettuale, linguista e scrittore Lorenz Diefenbach (1806-1883), pubblicato nel 1873. La trama verte intorno ad alcuni truffatori e giocatori d’azzardo che, grazie al lavoro, riscoprono la virtù riuscendo a dare un corso nuovo e positivo alle proprie esistenze.
Le vicende belliche hanno amplificato la fama del motto, ma al contempo lo hanno talmente decontestualizzato dal suo ambito iniziale, al punto che oggi in tanti lo ritengono un’invenzione dei nazisti e ignorano che si tratti, invece, del titolo di un libro.
La scritta fu utilizzata per la prima volta a Dachau e divenne in breve una prassi consolidata, estendendosi a numerosi altri campi di concentramento, fra cui quelli di Auschwitz, Sachsenhausen, Terezin e Birkenau.
In origine essa non rivelava alcun intento denigratorio o sarcastico verso i detenuti, ma indicava semplicemente la finalità correzionale del campo, dove attraverso il lavoro, l’ordine e la disciplina, su modello di quanto in passato accadeva nell’esercito prussiano, si cercava di correggere i comportamenti errati (o ritenuti tali) di alcuni gruppi di cittadini tedeschi da riammettere poi nella società. Ma è evidente che tale aspetto, nel periodo nazista, perse completamente di significato, mostrando il suo lato più crudele e beffardo.
Dal punto di vista formale tutto restò uguale, compresa la frase Arbeit macht frei in bella mostra sui cancelli, ma le dinamiche e le intenzioni dentro e fuori dai lager assunsero connotati diversi e via via sempre più drammatici. Oltre che di ebrei, da sempre oggetto di un odio feroce da parte di Adolf Hitler, i campi di concentramento si riempirono soprattutto di prigionieri provenienti dai Paesi occupati dalla Germania, ovvero appartenenti a razze ed etnie considerate “inferiori” dall’ideologia nazista; dunque perché correggerli se per loro non c’era alcuna speranza di poter essere riammessi in un contesto civile?
Una volta messa in moto la spietata macchina di repressione attraverso la quale concretizzare la “soluzione finale” sino ad allora soltanto teorizzata, i lager si trasformarono nei luoghi d’elezione in cui annientare i nemici fisicamente e moralmente.
La storia della “B” capovolta di Auschwitz
Un aneddoto interessante riguarda la frase Arbeit macht frei che, tutt’oggi visibile, svetta sul cancello di Auschwitz.
Come si può notare, la “B” di Arbeit è rovesciata. Non si tratta di un errore, bensì di una coraggiosa e precisa scelta del prigioniero polacco non ebreo numero 1010 Jan Liwacz, entrato nel lager nel giugno del 1940.
Di professione fabbro, quando gli venne imposto di forgiare la scritta in metallo Liwacz obbedì ma poi, in segno di protesta, saldò la “B” capovolta.
Solo di recente, dopo tanti anni e meticolose ricerche, si è scoperto il clamoroso gesto di dissenso nascosto, ma neanche troppo, in quella consonante, e dal 2014, in suo onore e ricordo, una statua si erge a Bruxelles davanti alla sede del Parlamento Europeo.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Arbeit macht frei”: storia e significato della frase sui cancelli dei campi di concentramento
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo Giorno della Memoria: i libri da leggere sulla Shoah News Libri Significato di parole, proverbi e modi di dire
Lascia il tuo commento