

È caratteristica condivisa di quella fetta privilegiata di mondo che è l’Occidente avere la libertà di scegliere chi diventare.
Tuttavia, il rapporto annuale 2025 dell’Istat segnala che, tra gli adulti tra i 25 e i 44 anni, le persone con almeno una laurea hanno registrato, nel 2024, condizioni di salute mentale peggiori rispetto a chi possiede al massimo un diploma. Sarà che il lavoro, da mezzo per sopravvivere, è diventato uno strumento di definizione identitaria, sarà che facciamo parte di un ordigno industriale che viaggia più veloce della luce, ma qualcosa qui non funziona.
Persino il lavoro più gratificante, vissuto con i ritmi e le richieste del mondo moderno, può diventare fonte di pesantezza: stress cronico e burnout sono termini così comuni da far apparire “anormale” chi non ne abbia familiarità.
Se è vero con Kant che l’uomo va trattato come fine e non come mezzo, mai come oggi è necessario riflettere sul lavoro: cosa ha rappresentato, cosa rappresenta e soprattutto cosa dovrebbe rappresentare per una vita degna di essere vissuta?
Etimologia della parola “lavoro”: le differenze tra latino e greco
La parola italiana “lavoro” viene dal latino labor, che porta con sé l’ombra di un cattivo presentimento: tra i suoi significati troviamo “fatica”, “sventura”, “sofferenza fisica”. Anche il verbo labor, laberis ha accezioni poco incoraggianti: “scivolare”, “andare in rovina”, “sbagliare”. Non solo sorprende quanto in comune abbiano questi valori con la nostra attualità, ma colpisce anche la distanza che si interpone rispetto alla mentalità greca, su cui vale forse la pena soffermarsi.
Il termine greco ἔργον, che traduciamo spesso con “lavoro”, significa propriamente “opera”, “occupazione”. Indica ciò che ciascuno ha il compito di fare, ma anche il prodotto del suo lavoro.
Il verbo “lavorare” in greco (ἐργάζομαι) veicola poi, rispetto al corrispettivo latino, un messaggio decisamente più fausto: “essere operoso”, “guadagnarsi da vivere”, “meritare”.
Nel lessico greco, quindi, il lavoro è connesso allo sforzo, sì, ma non contiene – come in quello latino – l’idea di travaglio o il rischio di andare a pezzi: parla piuttosto di costruzione, di potenziale umano, di giusto merito.
Esiodo, il primo teorico dell’etica del lavoro
Il primo teorico dell’etica del lavoro è il poeta greco Esiodo (VIII/VII secolo a.C.).


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Ne Le opere e i giorni (Ἔργα καὶ Ἡμέραι) vengono infatti proposte riflessioni che è utile rileggere in chiave divulgativa.
Giunto da Cuma Eolica in Beozia – il padre era un mercante fallito – Esiodo crebbe ad Ascra, villaggio da lui considerato brutto d’inverno e gravoso d’estate. Costretto a reinventarsi nei campi, raggiunse una certa agiatezza, grazie a cui poté dedicarsi anche alla poesia. Il lavoro fu per lui fonte di riscatto e autorealizzazione, una via per non dipendere da nessuno e godere dei frutti del proprio impegno.
Ma neanche la Grecia arcaica era esente dalle dispute ereditarie: alla morte del padre, il fratello di Esiodo, Perse, insoddisfatto della sua parte, pretendeva di più. Le opere e i giorni nascono da qui: un tentativo di farlo rinsavire, esortandolo a perseguire la strada del lavoro, necessario per ogni essere umano.
Vediamo quali sono i punti chiave della riflessione esiodea sul lavoro, che vi sorprenderanno per attualità.
Il lavoro è occasione di riscatto
Se Zeus, ingannato da Prometeo, ha condannato gli uomini a fatiche e affanni, attraverso il lavoro essi hanno l’opportunità di autodeterminarsi, guadagnandosi prosperità materiale e spirituale.
Il fine non è la ricchezza, ma il benessere
L’ozio è importante tanto quanto il lavoro, come tempo in cui si gode del frutto del proprio sforzo. Lo stesso Esiodo incarna questo ideale, contadino benestante e insieme poeta.
Nessun lavoro è vergognoso
A essere condannato è lo starsene senza far niente: chi guarda con invidia colui che ha di più, però non fa nulla, è inutile come un fuco nell’alveare. Ammirare gli altri, invece, può stimolare l’emulazione e il miglioramento di sé.
Il cortocircuito moderno del lavoro: dall’età dell’oro all’età della tecnica
Eppure, Esiodo sapeva che tutto ciò era una conquista, già ai suoi tempi. Rispetto all’età dell’oro – in cui gli uomini vivevano contenti, ricchi di greggi e privi di fatica – lui si collocava infatti nell’età del ferro: gli individui si distruggono di fatica giorno e notte, prevalgono competitività invidiosa e arroganza, e la giustizia è persa di vista.
Se già Esiodo, nell’VIII/VII secolo a.C., considerava la propria un’età del ferro, come definire la nostra?


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Forse, con Umberto Galimberti, potremmo chiamarla un’“età della tecnica”, un’età, in altre parole, in cui l’uomo, schiacciato da uno sviluppo tecnologico che gli è sfuggito di mano e su cui non ha più alcun potere, non solo non emerge vittorioso sulla natura, ma appare prosciugato di qualunque orizzonte di senso – condizione necessaria per il suo benessere psichico. Il senso non interessa alla tecnica: i suoi scopi principali sono funzionare e potenziarsi.
I dati, però, sono preoccupanti. Il TELUS Mental Index 2025, in relazione all’Italia, non lascia margine a fraintendimenti:
- il 45% dei lavoratori presenta un elevato rischio per la salute mentale;
- il 43% si sente ansioso;
- il 38% si sente depresso;
- il 35% si sente isolato;
- il 28% afferma che le difficoltà psicologiche influenzano negativamente la produttività lavorativa;
- il 26% non si sente ottimista riguardo al futuro.
Ma c’è di più: la salute mentale dei lavoratori registra in Italia il punteggio più basso tra i paesi europei considerati nel rapporto. Il carico di lavoro e lo squilibrio tra vita privata e lavoro sono indicati tra i fattori più comuni di stress.
Forse, allora, le parole di Esiodo – e più in generale la concezione del lavoro secondo i Greci – potrebbero fungere da faro per orientarsi in questo buio denso e disorientante in cui ci muoviamo a tentoni.
Non si tratta di mettere in discussione il lavoro: già nella Grecia arcaica ne veniva ribadito il potenziale e la necessità. Piuttosto, quello che occorre a noi – testimoni diretti dell’età della tecnica – è rallentare, fare un passo indietro, disattivare le notifiche, spegnere per qualche ora il cellulare e domandarci, individualmente e come collettività: dove stiamo andando?
È solo a partire da un ripensamento profondo del significato del lavoro e da un’onesta analisi di ciò in cui si è trasformato oggi che possiamo invertire la rotta verso un futuro in cui esso torni al servizio della vita, e non viceversa, tenendoci stretta quella qualità, tutta umana, che è la capacità di reinventarsi.

Riferimenti bibliografici
- Esiodo, Le opere e i giorni / Lo scudo di Eracle. Introduzione di Werner Jaeger; traduzione di Lodovico Magugliani; premessa al testo e note di Salvatore Rizzo, Rizzoli, Milano, 2004.
- Giovanni Mari, Il lavoro come areté di Esiodo, in G. Mari, F. Ammannati et alii (a cura di), Idee di lavoro e di ozio per la nostra civiltà, Firenze University Press, Firenze, 2024, 37-42.
- Umberto Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999.
- Umberto Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano, 2007.
- TELUS Mental Health Index. Pan-Europe March 2025
- Rapporto annuale 2025 Istat (Istituto Nazionale di Statistica)
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Vivere per lavorare o lavorare per vivere? La concezione del lavoro per Esiodo
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