Ogni anno Bologna ricorda con manifestazioni culturali, conferenze, testimonianze le sue vittime. Prima, a giugno, gli 81 morti della strage di Ustica, a cui è dedicato un suggestivo memoriale. E poi il 2 agosto, quel terribile sabato mattina di trentanove anni fa quando la città semiaddormentata fu scossa da un violento boato.
Laura Corsini ha voluto dedicare il suo ultimo romanzo, "Il canto di Ecate. Come cambiò Bologna il 2 agosto 1980", pubblicato da Santelli editore, a quell’anno difficile, cercando di narrare, tramite la vita di due giovani studenti, le angosce, le speranze, le paure di quel 1980 che, quando se ne andò, nessuno rimpianse.
Oggi la intervistiamo per chiederle qualcosa in più sulla sua ultima pubblicazione e per capire di più su questa profonda ferita dell’Italia.
- Laura, di cosa parla "Il canto di Ecate"?
Il libro è una sorta di romanzo storico, con la cornice reale e una storia fittizia che si snoda come se fosse vera, con tutti gli elementi per esserlo, però con la libertà totale che le persone inventate possono offrire alle pagine. Wilson è uno studente come probabilmente ce ne furono tanti e così Ursula. Però non esistettero mai un Wilson e una Ursula. Questa è la loro storia, semplicemente.
- Perché questa scelta di raccontare un fatto di cronaca doloroso e delicato attraverso la voce di personaggi inventati?
Perché, come scrivo anche nell’introduzione, non amo disturbare i morti, soprattutto chi è stato trascinato via da una tragedia in cui non aveva nessun ruolo se non quello di trovarsi lì quando le cose successero. Le persone vere le ho conosciute e mi hanno aiutato parecchio a capire, con le loro parole. Paolo Bolognesi, il presidente dell’associazione vittime della strage e anche una meravigliosa donna, Daria Bonfietti, che invece ha lottato per anni e anni per portare alla luce la verità sull’aereo caduto a Ustica il 27 giugno. Mi hanno raccontato tante cose, chiarito dei dubbi. E poi, Wilson e Ursula mi hanno permesso di mettere un po’ di me in quei fatti. Avevo solo dodici anni in quel fatidico 1980 e vivevo a una distanza che mi permise di passare indenne attraverso la tragedia. Però poi, dopo diversi anni, ritrovandomi ad amare visceralmente questa mamma Bologna che mi ha adottato, ho dovuto capire. E, per capire meglio, scrivere.
- Com’è la tua Bologna?
Io non sono bolognese di nascita, solo mia figlia lo è, messa al mondo in quell’edificio storico, la maternità di via D’Azeglio, che ora è diroccato e che chiamavano "i bastardini". Da studente stavo dalle suore e non ho assaporato granché la vita universitaria, tanto meno quella notturna, dovendo rientrare alle nove. Inoltre, io, a Bologna, ci sono arrivata alcuni anni dopo e il fermento si era un po’ sopito, non c’era più quella ricchezza culturale degli anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta. Né più quell’angoscia. Wilson è in qualche modo il mio riscatto, un giovane che si addentra nella città, cerca di capirla, di capire anche le contestazioni e le lotte. Si sente turbato e attratto e per crescere deve comunque cambiare.
- Qualcuno ti ha aiutato, nella ricerca e nella revisione?
Ho fatto rivedere l’intero testo a un caro amico, studioso e regista, che mi ha parlato di Roberto Roversi e della vita studentesca di quegli anni, dato che lui c’era. Pierpaolo Loffreda ha riletto tutto, offrendomi preziosi spunti e correzioni per migliorare il romanzo.
- Qual è il messaggio che il libro vuole trasmettere?
Di non aver paura, anche se molte cose nel mondo sono brutte. La paura rende schiavi, solo chi non ha timore è libero e la libertà è il dono più bello per un essere umano. Racconto ai giovani e anche a chi non lo è più una storia di violenza e di odio, ma anche di speranza e di infinito amore. La storia di due ragazzi e di una città che li ha ammaliati, ha in qualche modo caratterizzato le loro vite.
- Una speranza, per "il canto di Ecate"?
Naturalmente che molti lo leggano e ci pensino su. Ho penato tre anni nello scriverlo e poi ho esitato molto prima di mandarlo alle case editrici per vederlo pubblicato. Non vorrei mai che chi ha vissuto davvero la tragedia pensasse che l’ho trasformata in una fiaba. Questo mi ha fatto tenere il dattiloscritto per molto tempo inedito e nascosto. Ma poi il cortometraggio "La linea gialla" in cui hanno recitato tanti personaggi bolognesi importanti e dove Valentina Lodovini impersona la più piccola delle vittime, in una realtà parallela che vuole che la bimba non si sia mai trovata presso la stazione di Bologna il giorno della bomba e che ora sia una quasi quarantenne con i problemi e le gioie tipici di questa età, mi ha incoraggiata. Ho compreso che anche un’opera d’arte, sia cinema, sia letteratura, se rispettosa, può aiutare la verità a trionfare.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Laura Corsini, autrice de "Il canto di Ecate. Come cambiò Bologna il 2 agosto 1980"
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