Ingeborg Bachmann arrivò a Roma per caso, portata da un vento tiepido carico di cambiamento, nell’autunno del 1953. Veniva dalla soleggiata Ischia, dove aveva soggiornato a lungo nella casa del compositore Hans Werner Henze cui la legava un sentimento platonico. Inizialmente Ingeborg doveva fermarsi nella capitale soltanto un paio di mesi, ma vi rimase per vent’anni - salvo alcune saltuarie fughe - sino alla fine della sua vita, in quel maledetto giorno di settembre del 1973.
Il nomadismo di Ingeborg Bachmann: dall’Austria a Roma
La scrittrice e poetessa, originaria di Klagenfurt nella regione meridionale dell’Austria, trovò nella città di Roma l’ultima metropoli in cui “si possa avere un sentimento di patria interiore”. Chi dice che la patria sia la città in cui si è nati? Non basta nascere in una città per sentirla propria, per abitarla con l’anima, per trovarvi il proprio punto d’origine interiore. Bachmann trovò nella Città Eterna il luogo in cui tornare, l’approdo in cui placare il proprio istintivo desiderio di fuga. Lei, proprio lei che proveniva dalla Carinzia di “mirti fioriti e stagni” cantata da Eugenio Montale in Dora Markus e aveva nel sangue il nomadismo; la Carinzia, dopotutto, è una regione di crocevia identitari, in cui si parlano ben tre lingue (tedesco, sloveno e italiano). Esiste una parola in tedesco per esprimere le personalità come quelle di Ingeborg Bachmann, “Windisch” che letteralmente significa “ventoso”, ma in realtà esprime l’essenza di un popolo in bilico, sospeso tra identità linguistiche e culturali differenti. Bachmann definiva l’Italia come la sua “seconda patria” e Roma come “la sua città aperta dal carattere utopico”. Viveva nel cuore pulsante di Roma, in mezzo ai suoi palazzi antichi e ai suoi solerti traffici quotidiani, eppure scriveva storie ambientate a Vienna: viveva quella che lei definiva una “Doppelleben”, una doppia vita. “Windisch”, appunto, come chi si trova all’incrocio dei venti, solitario, esposto, eterno viandante con una domanda sospesa, ed è bruciato vivo.
Se è vero che nella vita si può nascere più volte, allora anche le coordinate geografiche che ci danno i natali possono essere messe in discussione. Non era l’austriaca Klagenfurt, ma Roma, la città che aveva fatto spalancare a Ingeborg Bachmann gli occhi sul mondo.
Quel che ho visto e udito a Roma di Ingeborg Bachmann
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Roma era la patria intellettuale di Ingeborg Bachmann, nel suo unico testo dedicato alla città Quel che ho visto e udito a Roma (Quodlibet, 2021, trad. di Kristina Pietra, Anita Raja) la definì con queste precise parole.
Non era la tipica turista proveniente dai paesi nordici stregata dal mito antico delle rovine romane. La Roma estetizzante e romantica non le interessava affatto, lei ricercava la Roma oscura delle contraddizioni, delle mancanze, dei vicoli stretti, delle erbacce incolte che spuntano sul lungotevere, della puzza di marcio, cloro e frutta marcita.
Nei suoi appunti romani, Ingeborg scrive:
Qui a Roma il Tevere è bello, ma trascurato. L’isola Tiberina è un’isola di malati e di morti. Al Ghetto non bisogna lodare il giorno prima che faccia sera. […] Giordano Bruno continua ad essere bruciato ogni sabato, quando si smantella il mercato. A Roma ho visto che tutto ha un nome e ho capito che bisogna conoscere i nomi.
La capitale nelle cronache di Bachmann non è un dipinto dai colori cangianti, ma una sorta di diapositiva in chiaroscuro che deve ancora attendere di venire chiaramente alla luce; Roma è come un affresco scrostato nel quale, strato sotto strato, è conservato un passato ancora radioso. Il supplizio eterno di Giordano Bruno rivive accanto al vociare delle beghine e agli strilli del fruttivendolo.
Bachmann venne a Roma per lavorare come corrispondente per vari giornali tedeschi e i suoi scritti romani risentono fortemente di questa sua impronta giornalistica. Quel che ho visto e udito a Roma è un compendio di fatti di cronaca, come l’omicidio della giovane Wilma Montesi, racconti di scioperi che superano persino il numero dei giorni feriali, un pullulare di vicende di caroaffitti (“i prezzi sono alti e le tracce della barbarie ovunque”) e lo strozzinaggio imperante.
Non seppe mai spiegare perché rimase nella capitale, ma sta di fatto che vi restò. Iniziò a partecipare ai circoli della vita culturale romana, si inserì nella società letteraria cittadina, collaborò alla rivista Botteghe oscure fondata da Giuseppe Ungaretti, scrisse persino un saggio sulla relazione tra la letteratura italiana e quella tedesca.
La Roma degli anni Cinquanta vista attraverso gli occhi di Bachmann, all’epoca corrispondente per Radio Brema, è un’identità che continuamente si compone e si scompone. La scrittrice assiste all’inaugurazione della metropolitana che descrive come “un sogno illuminato al neon” e al lancio della prima Fiat 600; l’ascesa dell’industria e del prodigio della tecnica sgretola l’incanto della Roma imperiale.
Ma accanto alla cronaca Bachmann inserisce anche la metafisica del suo sguardo poetico, l’afflato della sua voce interiore. Scrive:
Devo ammettere che solo a Roma ho imparato a darmi tempo. E se anche questa fosse l’unica cosa che mi ha dato la città, sarebbe già abbastanza.
Ingeborg Bachmann diceva in Italia aveva imparato a servirsi degli occhi, aveva imparato “a guardare”. A Roma sentiva di essere stata libera, finalmente, e aveva conosciuto il suo risveglio, il “risveglio dei suoi occhi, della sua gioia”. Accanto alla Roma della cronaca spicciola c’era quindi la Città Eterna delle folgorazioni epifaniche. La bellezza degli appunti romani di questa poetessa straniera è racchiusa nella sua visione “impura”, nella sua capacità inedita di raccontare oltre le visioni patinate da cartolina, guardando dritto nel cuore delle cose. Com’era quella parola tedesca? “Windisch”, forse il segreto della scrittura era tutto qui: nella contaminazione tra diversi modi di vedere. Ingeborg diceva che lo scopo dell’arte, in fondo, era quello di farci aprire gli occhi.
L’ultimo giorno a Roma di Ingeborg Bachmann
Accanto allo spirito d’osservazione acuto e perspicace della giornalista conviveva in Ingeborg l’animo tormentato del poeta. La sua permanenza a Roma si interrompe nel 1957 quando decide di trasferirsi a Monaco dove accetta un lavoro come drammaturga per la televisione. È il periodo in cui conosce lo scrittore Max Frisch con cui intreccia una relazione tormentata e avvelenata dal demone della gelosia. Viaggia spesso tra Roma e Zurigo per poi fare ritorno definitivamente a Roma nel 1966. È sola, addolorata, perseguitata dalle ombre e dai fantasmi di dolori mai dimenticati. La fine della storia con Frisch segna l’inizio di un declino inesorabile.
Dopo aver vissuto a lungo in via Bocca di Leone, suo primo domicilio romano, e in Piazza della Quercia, Ingeborg Bachmann si trasferisce nell’appartamento di via Giulia 66, la sua ultima dimora. Proprio qui, nella casa di via Giulia, la vita di Ingeborg Bachmann si spegne in un crepuscolo che divampa in un incendio di fiamme. Stordita dai barbiturici si assopisce con una sigaretta accesa nella mano che lentamente scivola sulla vestaglia di nylon: il contatto fatale. È un attimo, una fiamma che divampa, e poi il buio. Ma non è forse vero, come diceva un Poeta, che ogni vita è chiamata ad ardere sino ad arrivare consumata all’ultimo fuoco? Potrebbe così sopravvivere quell’istante in cui tutto appare chiaro, nitido, l’attimo in cui il principio e la fine si ricongiungono.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: A Roma con Ingeborg Bachmann
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