Recensione
Vigevani: sul lago declina un’innocenza borghese
Quaranta Bruno, Tuttolibri - La Stampa
Quando «i genitori non lasciavano i ragazzi in giro per le strade». Sin dall’incipit, «Estate al lago» di Alberto Vigevani rivela la sua età, remota, remotissima. Il racconto - apparso nel 1958 - è un dagherrotipo degli anni Venti e Trenta, come protagonista Giacomo, in bilico fra fanciullezza e adolescenza, fra l’armonia, nell’unico tempo in cui è dato sfiorarla, e la consapevolezza della macchia, dell’ictus, dell’ombra che sempre mortificherà la maturità («...il sentimento d’impotenza sperimentato ogni volta che il mondo d’armonia, che gli era promesso, si mostrava di colpo irraggiungibile...»). Eppure «Estate al lago» è un album non ingiallito, secondo Geno Pampaloni, autore della nota risalente al 1976, è una tranche de vie che merita il titolo di classico («Ha avuto la sorte, piuttosto rara, di non dovere la sua vitalità - anche editoriale - al successo mondano, al ”consumo”, ma alla propria discretissima forza di persuasione poetica»). Giacomo - figlio di un avvocato, in primis testimone incantato (mai futile) della Milano sospesa sui Navigli, color Tessa - è in qualche modo l’alter ego di Vigevani, scomparso nel 1999, libraio, libraio antiquario («mercante di cultura» volle definirsi, e di una cultura dove vibravano - nitide - le note ebraiche), editore («Il Polifilo»), scrittore, certo, nonché custode di una prestigiosa «onorificenza» (Raffaele Mattioli gli affidò la direzione dei classici Ricciardi). Ma, soprattutto, il «pittore» di «Estate al lago» (sì, ha il respiro di un guazzo) è, fu, un borghese, di stoffa settecentesca, «integrity». Il mondo borghese è il liquido amniotico di Giacomo. Interni (interiorità) ed esterni nella stagione delle vacanze. Un inventario di cose che «fanno epoca»: le locomotive rosse e nere, la banderuola di ferro «che nel vento girava con uno stridio pettegolo», il giardino che «suscitava l’impressione di una stampa cinese», il profumo di gelsomino, il grammofono a valigia...Un’educazione sentimentale, vorticosa e insieme acquerellata: dal seno di Emilia, la governante («Fu lei a offrirglielo, scostando la spalla, e gli sembrò che bruciasse») agli occhi della madre di Andrew, il piccolo «lord» inglese di salute cagionevole («Non aveva cercato altro, dal primo giorno: che s’accorgesse della sua esistenza, che piegasse il proprio sguardo di dea su di lui»). Quando si portavano i «calzoni corti fra la gente senza vergogna, piuttosto come un castigo per aver cercato d’abbreviare gli anni». Quando, chini sul foglio a righe del componimento, si intravedeva il domani, il commiato dalla favola («La pagina biancheggiava come la secca di un fiume, da cui aridi e contorti spuntavano i suoi caratteri, e parevano rovi»). Si «sta» frusciando nell’«Estate al lago», come in una campana di vetro, dove la malinconia è un frutto araldico, pegno di un paradiso, di un’innocenza, che infine tornerà dall’esilio.
