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Gli errori di Darwin Copertina flessibile – 22 febbraio 2012
Opzioni di acquisto e componenti aggiuntivi
- Lunghezza stampa263 pagine
- LinguaItaliano
- EditoreFeltrinelli
- Data di pubblicazione22 febbraio 2012
- Dimensioni12.8 x 2 x 19.5 cm
- ISBN-108807723247
- ISBN-13978-8807723247
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Dettagli prodotto
- Editore : Feltrinelli (22 febbraio 2012)
- Lingua : Italiano
- Copertina flessibile : 263 pagine
- ISBN-10 : 8807723247
- ISBN-13 : 978-8807723247
- Peso articolo : 181 g
- Dimensioni : 12.8 x 2 x 19.5 cm
- Posizione nella classifica Bestseller di Amazon: n. 165,070 in Libri (Visualizza i Top 100 nella categoria Libri)
- n. 2,275 in Scienze biologiche (Libri)
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Giudizi più lunghi del libro non servono a nulla.
La prima parte è di carattere biologico e sostiene che la selezione naturale, di cui gli autori non negano l’esistenza, non sia un fenomeno onnipervasivo e che dunque non possiamo spiegare lo stato attuale delle specie viventi ricorrendo soltanto a essa. Anzi, è più probabile che sia un fenomeno minoritario.
La seconda parte è di carattere filosofico e sostiene che nel concetto stesso di selezione naturale, più precisamente di ‘selezione-per’, vi sarebbe una falla drammaticamente fatale: in quel concetto, qualcosa non funziona.
Mi sto ancora chiedendo se queste due risposte non siano contraddittorie: se la selezione naturale esiste, come può il suo concetto essere fallace? In effetti, Fodor e Piattelli Palmarini affermano che essa è un fenomeno reale quando opportunamente definito, ma nel paragrafo che porta questo titolo non mi sembra si proceda a una esposizione del “giusto” concetto di selezione. Ne deduco che per selezione essi intendano semplicemente l’esistenza di differenti tassi di riproduzione (alcuni individui hanno più figli, altri meno) – esattamente quello che i biologi chiamano fitness. Ma l’esistenza di questi diversi livelli di fitness a cosa è dovuta? La teoria di Darwin afferma che essa è dovuta al maggiore successo che certi organismi hanno rispetto ad altri nell’interazione con l’ambiente. Al contrario, sulla questione, per quel che posso giudicare, Fodor e Piattelli Palmarini tacciono: se la selezione per loro esiste, non è dato sapere a cosa è dovuta.
Tutta la prima parte è dedicata a mostrare come il ruolo giocato dalla selezione naturale sia affatto minoritario. A essere protagonisti sono piuttosto vincoli strutturali, leggi della forma, auto-organizzazione, e tutta quella serie di variabili endogene che Fodor e Piattelli Palmarini intendo opporre alle variabili esogene su cui, a loro avviso, si baserebbe la teoria di Darwin.
Chiunque abbia una minima familiarità con la letteratura sul darwinismo e sulla teoria dell’evoluzione, si rende conto già a pagina 2 che il target polemico dei due autori è quel darwinismo versione hard, già oggetto delle corrosive critiche dei vari Gould, Eldredge, Lewontin, Steven Rose, e molti altri – vale a dire il neodarwinismo, la Nuova Sintesi… scegliete il nome che vi pare.
In altre parole gli autori attribuiscono alla teoria di Darwin, confusa con il neodarwinismo senza nemmeno due righe di spiegazione, una serie di caratteristiche che sono già state fatte oggetto di critiche da lungo tempo: il pan-adattazionismo (l’idea che tutto sia spiegabile in termini di fitness), l’idea che soltanto le mutazioni genetiche siano responsabili della variazione, quella che fra geni e tratti vi sia una corrispondenza esatta, la descrizione dell’adattamento come costante adeguamento all’ambiente esterno – dettato unicamente dalle caratteristiche di quest’ultimo, il gradualismo ingenuo, l’idea che la variazione sia del tutto casuale, la suddivisione “atomistica” del fenotipo, ecc.
Tutti questi aspetti sono stati messi in discussione almeno dagli anni Settanta, e in alcuni casi anche prima. Il problema in ogni caso è di natura – qui sì – concettuale: se riduciamo all’osso la teoria di Darwin, essa si basa sul doppio principio variazione-selezione. Una popolazione presenta normalmente variazioni individuali, che determinano maggiori o minori vantaggi nell’interazione con l’ambiente, da cui derivano diversi livelli di fitness. Col trascorrere delle generazioni, questo processo porta a una redistribuzione dei tratti fenotipici. Proprio per il fatto che esso comporta un maggiore successo nell’interazione con l’ambiente – e non una maggiore fitness, come erroneamente sostengono gli autori, perché quest’ultima è un valore dell’individuo e non della popolazione – tale processo viene definito ‘adattamento’.
Ora, mettere l’accento sulle variabili endogene significa metterlo in ultima istanza su ciò che produce la variazione, anziché sulla selezione. Ma questo significa forse togliere il lavoro alla selezione naturale, come pretendono gli autori? No. La selezione naturale si nutre della variazione. A meno di supporre che gli individui cambino tutti insieme nello stesso modo, generazione dopo generazione, l’unico processo in grado di uniformare le diversità incanalando la variazione disponibile in una direzione anziché in un’altra è la selezione naturale. Porre l’accento sui vincoli non ha semplicemente senso: intorno a quei vincoli sarà comunque presente un margine per le variazioni individuali, che saranno dunque premiate in funzione del maggiore o minore successo riproduttivo. Porre l’accento sui vincoli ha senso solo se quella che si vuole operare è una critica dell’adattamentismo onnipervasivo – critica peraltro già svolta in lungo e in largo – e non del concetto di selezione naturale.
Quanto alle famigerate leggi della forma, mi risulta che già da un pezzo esse siano accettate e studiate, ma in modo integrativo, non alternativo, alla selezione naturale; e lo stesso dicasi dei principi di auto-organizzazione di Kauffman – di cui, lo ammetto, non so una mazza. So soltanto che finora nessuno ha mai dimostrato che queste leggi/processi abbiano avuto un ruolo preminente nell’evoluzione, mentre la presenza della selezione naturale è stata documentata in lungo e in largo. Naturalmente nessuno può andare nel Giurassico a misurare la selezione naturale, ma questo limite osservativo vale per qualsiasi altro processo o principio esplicativo possa essere proposto.
Prima di passare alla parte “filosofica”, due parole sul caso. La versione di darwinismo presentata da Fodor e il suo compare Piattelli Palmarini prevede che la selezione operi su un repertorio casuale di varianti. Anche qui, il loro target polemico è la Sintesi Moderna. Ammettiamo che la scelta del termine ‘caso’ da parte di Darwin sia stata infelice, o forse fatta un po’ alla leggera. Ma cosa intendeva con quel termine? Principalmente due cose. In primo luogo parlare di «caso», riguardo alle modalità con cui si forma la variazione, era solo un modo di ammettere «la nostra ignoranza» sull’argomento. Darwin non ci dormiva la notte sulla variazione – e si flagellava di continuo per il fatto di non saperla spiegare. Oggi per fortuna sappiamo un sacco di cose che lui non sapeva. Questo naturalmente non è poco, ma ciò non significa che il quadro teorico sia mutato.
Il secondo significato – ben più importante – del termine ‘casuale’ in riferimento alla variazione concerne il fatto che le singoli variazioni non insorgono per soddisfare le esigenze dell’organismo. Nella competizione esse possono infatti risultare favorevoli, neutre o nocive. Ciò costituiva una importante differenza col modello di Lamarck, per il quale la variazione, essendo dettata dall’ambiente, non poteva che essere favorevole, proprio perché dovuta a un certo bisogno dell’organismo, insorto in funzione di un mutamento ambientale. Darwin, di contro, poteva affermare che le variazioni sono indifferenti al destino dell’organismo perché le specie a volte si estinguono. A volte, semplicemente, qualcosa va storto: la selezione non ha trovato, se posso esprimermi impropriamente, alcuna variazione proficua su cui lavorare. Non è un caso che l’estinzione per Lamarck fosse invece un fenomeno apparente. Più in generale, Darwin poteva dirlo perché non tutti gli individui hanno successo allo stesso modo nella struggle for life. La grande innovazione di Darwin, in ogni caso, è stata l’aver separato concettualmente le cause dell’insorgere della variazione, di cui sapeva poco o nulla, dalla causa della loro conservazione, cioè la selezione naturale.
Forse non è una scelta lessicale felice quella di definirle casuali per questo motivo, fatto sta che il ‘caso’ in Darwin non ha nulla a che fare con un lancio di dadi. Sono stati altri autori, come Monod o Dawkins, che semmai hanno messo l’accento sulla mutazione genetica casuale come unica fonte di novità. Perciò il parallelo con il comportamentismo di Skinner secondo me è del tutto campato per aria.
In effetti ci sarebbe un terzo significato, non menzionato esplicitamente da Darwin, ma che possiamo attribuirgli in virtù di una lettura globale dei suoi testi – ed è il caso in quanto contingenza storica – ma non ha nulla a che fare con la variazione e quindi non mi ci soffermerò.
Passiamo alla seconda parte. Vediamo se riesco a riassumere l’obiezione fondamentale dei due autori. Anzitutto, i tratti fenotipici non sono mai isolati – spesso vanno insieme. Questo significa che quando viene selezionato un tratto, ci sarà sempre qualche altro tratto premiato in conseguenza del primo. Giustissimo, anche Darwin lo sapeva. Ora, l’obiezione degli autori è che è impossibile per il biologo evoluzionista stabilire quale tratto sia stato selezionato e quale sia stato preso solo “a rimorchio” del primo, in altre parole quale tratto sia stato realmente decisivo nella competizione che porta alla selezione naturale e quale no. Gli autori compiono il parallelo con il condizionamento operante di Skinner. Se addestriamo due piccioni a compiere discriminazioni tra stimoli, molto spesso ci troveremmo nell’imbarazzo di non saper spiegare quale proprietà sia stata effettivamente discriminata: forse il colore? La forma? O che altro? Questo sempre per la stessa ragione, ossia che tali proprietà vanno insieme.
Faccio una serie di osservazioni: (1) anzitutto questa proprietà è comune a qualsiasi fenomeno causale, non è affatto esclusiva della selezione naturale o del condizionamento operante. Quando x causa y ci sarà sempre qualche proprietà di x irrilevante per la produzione di y. È un problema generale della causazione, ed è proprio per questo che a volte stabilire cosa ha causato cosa può essere difficile. Gli scienziati sanno come risolvere questo problema (almeno in teoria), cioè attraverso il controllo sperimentale, tenendo ferme le variabili dei fenomeni e osservando come cambiano le altre. Nel caso del condizionamento operante, i dubbi circa l’effettiva discriminazione appresa dal soggetto sono all’ordine del giorno. Generalmente tali dubbi vengono risolti con esperimenti di controllo. Talvolta è più difficile, talvolta meno, ma non mi sembra proprio che su questo aspetto gli scienziati brancolino nel buio; (2) contrariamente a quanto sostengono gli autori, la loro critica non colpisce affatto il concetto di selezione, semmai colpisce quello di adattamento (nel senso stavolta di ‘tratto adattativo’). Dopotutto, in base alla loro ricostruzione, qualcosa viene pur selezionato – cioè un certo insieme di tratti correlati. Al limite essi ci mostrano l’impossibilità di dire quale sia stato selezionato perché adattativo (nei loro termini, quale sia stato selezionato-per), non quali siano stati selezionati punto.
Ebbene, questa obiezione funziona? A differenza di altri scienziati, i biologi evolutivi non sempre possono effettuare esperimenti di controllo. Ma ciò non significa che non sappiano minimamente che pesci pigliare. Esistono varie osservazioni comparative che i biologi sul campo possono compiere nel tentativo di ricostruire quali tratti siano stati soggetti a selezione, nonché metodi per effettuare tali ricostruzioni. Può essere più o meno difficile, ma certamente non è un’utopia come vorrebbero gli autori. Confrontando specie affini limitrofe, come fece Darwin con i fringuelli delle Galapagos, è assolutamente ragionevole concludere quali siano i tratti adattivi e quali semplici conseguenze della discendenza comune. Fodor e Piattelli Palmarini in effetti riconoscono che ricostruzioni adattative di questo tipo siano possibili, ma affermano che si tratta di ricostruzioni meramente storiche, e che il principio dell’adattamento per selezione naturale non possa in alcun modo aspirare al carattere nomologico che si richiede per la scienza. La teoria dell’evoluzione, dicono, non può arrivare a leggi esatte – non può mai dire «doveva andare così» ma sempre soltanto «è andata così». La mia risposta è: ecchissenefrega! È già da un pezzo che scienziati e filosofi della scienza (alcuni, se non altro) hanno cominciato a riflettere sul particolare statuto epistemologico delle scienze del vivente, rispetto alle scienze dure come la fisica. La spiegazione adattativa è storica perché è l’evoluzione della vita a esserlo. È semplicemente una conseguenza del carattere dei fenomeni indagati. A un certo punto gli autori sostengono che l’errore fondamentale di Darwin sarebbe stato quello di fare dell’evoluzione un dominio teorico, mentre invece si tratta semplicemente di un dominio storico. Questa affermazione è ridicola. Sfido io a non trovare in Darwin un acuto senso della storia, cioè una piena consapevolezza che, per quanto la selezione naturale possa essere un fenomeno importante e diffuso, non siano anche i dettagli storici contingenti a determinare le vie che di fatto l’evoluzione prende di volta in volta.
Tornando all’obiezione di natura concettuale di Fodor e Piattelli Palmarini, notiamo che essa dice qualcosa di più. Non solo i tratti vanno sempre a braccetto, di modo che risulta arduo dire quale di essi sia stato effettivamente selezionato e quale sia un semplice sottoprodotto della selezione dell’altro. Di più, tali proprietà possono essere descritte in modo alquanto differente. Ad es. possiamo dire che il manto di un orso polare è bianco oppure che è mimetizzato con l’ambiente. Ebbene, la selezione naturale ha premiato il colore o il mimetismo? Secondo gli autori rispondere a questa domanda è impossibile. Inoltre, a loro avviso, su questa domanda si spezza l’analogia darwiniana tra la selezione artificiale effettuata da allevatori e contadini e la selezione naturale stessa. Infatti nel primo caso possiamo comodamente andare da un allevatore e chiedere: “cosa volevi ottenere attraverso quest’incrocio?”. Nel caso della selezione naturale ciò non è possibile; non avendo nessuno a cui chiedere, non sapremo mai se la selezione naturale ha avuto come “target” la bianchezza del manto in quanto tale, oppure il fatto che il colore del manto sia lo stesso di quello del paesaggio circostante.
Trovo abbastanza incredibile che con un’obiezione di questo tipo si pretenda di gettare fango su un fenomeno che viene indagato sul campo da decenni, e di cui gli stessi autori non possono disconoscere l’esistenza. Nell’ambiente dell’orso polare le proprietà essere-bianco e essere-ben-mimetizzato sono la stessa cosa. Non c’è bisogno di chiedersi quale proprietà sia stata “vista” dalla selezione. A meno che, naturalmente, non si scopra che avere un manto bianco comporti altri vantaggi oltre quello meramente mimetico – allora sì, il problema si pone. Se – ulteriore possibilità – ci poniamo invece dal punto di vista di tutti gli ambienti possibili, a quel punto sì possiamo affermare che la proprietà vantaggiosa è quella di replicare il colore dell’ambiente. Se la neve fosse nera, l’orso polare probabilmente avrebbe un manto nero. Se teniamo fermo il fatto che la neve è bianca, possiamo adottare la descrizione che preferiamo.
È vero: come dicono Fodor e Piattelli Palmarini, i modi in cui una proprietà può essere descritta sono potenzialmente infiniti. Un cane ha 4 zampe oppure 2 alla seconda zampe (aNobii non permette di mettere gli esponenti). Assumendo che la selezione a un certo punto abbia selezionato i vertebrati per avere 4 zampe, come possiamo escludere che non li abbia selezionati per averne 2 alla seconda? Ancora una volta la risposta è: chissenefrega! Finché non troviamo un contesto in cui quella differenza è rilevante, sarà lecito sbattercene altamente e adottare la descrizione che più ci è comoda. La biologia evoluzionistica è interessata a alternative che siano realmente interessanti, non a quelle oziose – e fintantoché tali alternative sono interessanti, i biologi continueranno a utilizzare i metodi noti.
In conclusione, ritengo le obiezioni filosofiche infondate, quelle biologiche non nuove e in ogni caso non rivoluzionarie. Non nego che nella prima parte siano descritti fenomeni importanti che meritano un ulteriore approfondimento. Né nego la possibilità che in futuro si scopra che alcuni di questi fenomeni costituiscano processi evolutivi realmente alternativi alla selezione. Ma dubito fortemente che possano mai riuscire a scalzarla.
Un’ultima domanda. I due autori, in effetti, con chi è che ce l’hanno? Con Darwin o con i neodarwinisti? Complessivamente, sembra ce l’abbiano (1) con questi ultimi, (2) con gli esponenti della psicologia evoluzionistica, che oggi opera imperterrita entro un’impostazione adattazionista stretta. Trovo molto giusto muovere critiche a questi approcci semplicistici, ma reputo anche un po’ troppo comodo usare questo target polemico come rappresentativo dell’intero quadro teorico. Così com’è stato troppo comodo intitolare il libro What Darwin Got Wrong (significativo che nell’appendice all’ed. italiana Piattelli Palmarini ammetta candidamente che il riferimento a Darwin nel titolo sia dovuto a questioni di visibilità. Per carità, scegliersi un titolo a effetto è qualcosa che fanno tutti – ma tutti se ne assumono anche i rischi). È inutile andarsi a cercare l’elenco di citazioni di autori che sostengono che il modello neodarwinista sia ormai alla frutta – perché questo già lo sapevamo. Avercela con i neodarwinisti non implica il rifiuto del paradigma darwiniano nella versione estesa con cui si presenta oggi.