Les enfants terribles di Jean Cocteau, del 1929, è uno di quei libri che ti stupiscono se li sai stare a sentire. Cioè, non li devi solo leggere - voltando le pagine di una stesura che è già da sola, a mio avviso, sublime -, ma devi anche cercare un po’ di capirli, andando a guardare un po’ al di là di quello che semplicemente raccontano.
Bon, esistono libri così.
E per me questo lo è pienamente, tanto denso di simbolismo da ricordare i surrealisti e invece così lontano da loro da essere figlio del materialismo, “I ragazzi terribili” è carne che parla, adolescenti che vivono, sperimentano, è sofferenze che vengono a galla e gioie che esplodono, voce misteriosa che prende parola, racconto favolistico dai tratti tragici, dramma immerso nella leggerezza, gravità bagnata di volatilità - qualcosa, insomma, che squarcia il quadro di un senso unico.
Perché lo leggi Cocteau, e un po’ pure ti incanti mentre ti ritrovi a seguire questi due fratelli, Paul ed Elisabeth, due giovani orfani, e ti incuriosisci perché li capisci e non li comprendi; sono due adolescenti sbandati, qualcuno potrebbe dire, ma sono più di questo; c’è in loro, e nei tre amici che compaiono in questo romanzo, un intreccio tra il destino come Fato, la Poesia come estetica, come materia fattasi corpo, e la visione di un inconscio che è “notte della nostra anima” che fa breccia nell’epifania di forze che non appartengono a nessuno di loro, ma anzi li prescinde e determina. Bello.
Come viene detto nella postfazione al libro: “Strumenti d’un Apollo fanciullesco e tragico, Paul ed Elisabeth sono le prime vittime di un morbo “poetico” - una “peste”, direbbe forse Artaud - che li ha privati d’ogni vera individualità, investendoli d’un privilegio che impedisce ogni evoluzione, ogni presa di coscienza”.
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