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La vita agra Copertina flessibile – 8 maggio 2013
Opzioni di acquisto e componenti aggiuntivi
- Età di letturaDa 3 anni in su
- Lunghezza stampa208 pagine
- LinguaItaliano
- Dimensioni13 x 1.32 x 19.99 cm
- Data di pubblicazione8 maggio 2013
- ISBN-108807881640
- ISBN-13978-8807881640
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Dettagli prodotto
- Editore : Feltrinelli (8 maggio 2013)
- Lingua : Italiano
- Copertina flessibile : 208 pagine
- ISBN-10 : 8807881640
- ISBN-13 : 978-8807881640
- Peso articolo : 180 g
- Dimensioni : 13 x 1.32 x 19.99 cm
- Posizione nella classifica Bestseller di Amazon: n. 27,043 in Libri (Visualizza i Top 100 nella categoria Libri)
- n. 1,078 in Classici (Libri)
- n. 2,454 in Narrativa contemporanea (Libri)
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Luciano Bianciardi (1922-1971) è stato una dei più rilevanti veri e propri intellettuali a tutto campo del secolo scorso. Nato a Grosseto, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, dopo essere diventato professore di inglese alle medie e poi di storia e di filosofia nel liceo che aveva frequentato da ragazzo, assume la direzione della Biblioteca Chelliana di Grosseto. L’edificio che la ospitava era stata gravemente bombardato e danneggiato da un’alluvione nel ’44, e così Bianciardi ideò il “Bibliobus”, un furgone che portava i libri nelle campagne della Maremma dove altrimenti, in quel periodo, non sarebbero mai arrivati. Inizia un forte impegno sociale politico e culturale, occupandosi anche di cineclub, conferenze e dibattiti a tutto campo sulla nostra società. Allaccia una stretta collaborazione con Carlo Cassola, assieme al quale esordisce come scrittore nel 1956 con “I minatori della Maremma”.
Il legame con la sua terra è molto forte così come l’attenzione per i più deboli e sfruttati, come i minatori che lavorano sulle Colline Metallifere grossetane. Il 4 maggio del 1954 a Ribolla – piccola località dove Bianciardi si recava spesso col suo Bibliobus – esplode il pozzo uccidendo 43 minatori. La tragedia segna profondamente tutto il territorio, anche perché si vocifera che la Montedison (titolare della concessione) intendeva da tempo chiudere quel pozzo ormai poco redditizio – tralasciando la manutenzione e la sicurezza – cercando un’ottima occasione per chiudere, cosa che avrebbe ridotto comunque alla fame tutti i lavoratori e le rispettive famiglie.
Per Bianciardi è un evento così rilevante che decide di lasciare Grosseto e trasferirsi a Milano, accettando di collaborare alla creazione della nuova casa editrice Feltrinelli (per la quale tradurrà, fra gli altri, London, Faulkner, Steinbeck e Miller) e dalla quale però nel 1956 verrà licenziato.
Infatti Bianciardi deplora e poco sopporta l’establishment culturale italiano e così si chiude sempre più in se stesso per leggere, scrivere e tradurre. Nel 1962 pubblica il suo romanzo più famoso “La vita agra” che, come una sorta di autobiografia, racconta la storia di Luciano addetto culturale di una filiale di una grande azienda multinazionale che possiede la concessione della miniera nei pressi del piccolo paesino toscano rurale dove è nato.
Per incuria, ma soprattutto perché la miniera non rende più, la multinazionale vorrebbe disfarsene il prima possibile, sfruttando al massimo il poco minerale rimasto e ovviamente anche i minatori. Cosa che, come fin troppo spesso accade, porta alla catastrofe. Una sacca di gas formatasi fra due tunnel con livelli differenti esplode causando il crollo della miniera e la morte di tutti i minatori presenti.
Luciano, sconvolto e devastato, si sente in dovere di reagire, e così parte per Milano, deciso a far saltare in aria la sede centrale della multinazionale, che lui chiama “il torracchione”. Ma a Milano Luciano verrà travolto da quello che di lì a breve apparirà nei libri di storia come il famigerato “Boom”. Anche se ha lasciato moglie e figlio piccolo al paese, Luciano intreccerà una profonda relazione con Maria, una compagna di battaglie e lotte sociali, con la quale andrà a vivere insieme. E, come il resto della nazione, non potrà evitare ogni giorno di fare i conti con le spese quotidiane, fra rate e cambiali per arrivare, tra una traduzione e l’altra, a fine mese.
Superbo e crudo affresco del Boom e della città che più lo ha rappresentato. Bianciardi ci racconta di un Paese che sacrifica senza remore la propria secolare anima rurale e contadina, vergognandosene quasi, per un futuro “moderno” ed “elettrodomesticizzato”. Un Paese che sembra così lontano ma che, riflettendoci bene, è tanto vicino a quello attuale.
Fra i numerosi brani indimenticabili spicca quello che descrive lo stupore e la solitudine che prova Luciano nel fare la spesa in un grande supermercato, lui che è stato sempre abituato ai piccoli negozi dove si ha il conto aperto e si conosce bene il proprietario. E poi l’autore ipotizza in maniera davvero irresistibile e satirica un futuro alternativo a quello dove il Paese è fagocitato dal Boom. Un futuro dove prende piede una sorta di “neocristianesimo a sfondo disattivistico e copulatorio” che incredibilmente ricorda molto il pianeta utopico da cui proviene la protagonista nel delizioso “Il pianeta verde” di Coline Serrau.
Fino al 1993, anno in cui esce “Vita agra di un anarchico” di Pino Corrias, Luciano Biancardi è praticamente caduto vergognosamente nell’oblio della cultura italiana. Fra le cause principali ne spiccano due: la morte a soli 49 anni, da attribuire alla sua dipendenza dall’alcol e dal tabacco. Ma, soprattutto e come già ricordato, il suo totale disprezzo per l’establishment editoriale e culturale italiano, così come dei suoi “salotti” più importanti. Evidentemente dotti critici ed esperti hanno ritenuto di dover obliare l’opera e le opinioni di un grande intellettuale italiano libero, sempre contro – purtroppo anche verso se stesso… – i compromessi e le ipocrisie morali.
Da leggere per capire da dove veniamo e, soprattutto, dove andiamo.
Recensito in Italia il 1 marzo 2021
Luciano Bianciardi (1922-1971) è stato una dei più rilevanti veri e propri intellettuali a tutto campo del secolo scorso. Nato a Grosseto, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, dopo essere diventato professore di inglese alle medie e poi di storia e di filosofia nel liceo che aveva frequentato da ragazzo, assume la direzione della Biblioteca Chelliana di Grosseto. L’edificio che la ospitava era stata gravemente bombardato e danneggiato da un’alluvione nel ’44, e così Bianciardi ideò il “Bibliobus”, un furgone che portava i libri nelle campagne della Maremma dove altrimenti, in quel periodo, non sarebbero mai arrivati. Inizia un forte impegno sociale politico e culturale, occupandosi anche di cineclub, conferenze e dibattiti a tutto campo sulla nostra società. Allaccia una stretta collaborazione con Carlo Cassola, assieme al quale esordisce come scrittore nel 1956 con “I minatori della Maremma”.
Il legame con la sua terra è molto forte così come l’attenzione per i più deboli e sfruttati, come i minatori che lavorano sulle Colline Metallifere grossetane. Il 4 maggio del 1954 a Ribolla – piccola località dove Bianciardi si recava spesso col suo Bibliobus – esplode il pozzo uccidendo 43 minatori. La tragedia segna profondamente tutto il territorio, anche perché si vocifera che la Montedison (titolare della concessione) intendeva da tempo chiudere quel pozzo ormai poco redditizio – tralasciando la manutenzione e la sicurezza – cercando un’ottima occasione per chiudere, cosa che avrebbe ridotto comunque alla fame tutti i lavoratori e le rispettive famiglie.
Per Bianciardi è un evento così rilevante che decide di lasciare Grosseto e trasferirsi a Milano, accettando di collaborare alla creazione della nuova casa editrice Feltrinelli (per la quale tradurrà, fra gli altri, London, Faulkner, Steinbeck e Miller) e dalla quale però nel 1956 verrà licenziato.
Infatti Bianciardi deplora e poco sopporta l’establishment culturale italiano e così si chiude sempre più in se stesso per leggere, scrivere e tradurre. Nel 1962 pubblica il suo romanzo più famoso “La vita agra” che, come una sorta di autobiografia, racconta la storia di Luciano addetto culturale di una filiale di una grande azienda multinazionale che possiede la concessione della miniera nei pressi del piccolo paesino toscano rurale dove è nato.
Per incuria, ma soprattutto perché la miniera non rende più, la multinazionale vorrebbe disfarsene il prima possibile, sfruttando al massimo il poco minerale rimasto e ovviamente anche i minatori. Cosa che, come fin troppo spesso accade, porta alla catastrofe. Una sacca di gas formatasi fra due tunnel con livelli differenti esplode causando il crollo della miniera e la morte di tutti i minatori presenti.
Luciano, sconvolto e devastato, si sente in dovere di reagire, e così parte per Milano, deciso a far saltare in aria la sede centrale della multinazionale, che lui chiama “il torracchione”. Ma a Milano Luciano verrà travolto da quello che di lì a breve apparirà nei libri di storia come il famigerato “Boom”. Anche se ha lasciato moglie e figlio piccolo al paese, Luciano intreccerà una profonda relazione con Maria, una compagna di battaglie e lotte sociali, con la quale andrà a vivere insieme. E, come il resto della nazione, non potrà evitare ogni giorno di fare i conti con le spese quotidiane, fra rate e cambiali per arrivare, tra una traduzione e l’altra, a fine mese.
Superbo e crudo affresco del Boom e della città che più lo ha rappresentato. Bianciardi ci racconta di un Paese che sacrifica senza remore la propria secolare anima rurale e contadina, vergognandosene quasi, per un futuro “moderno” ed “elettrodomesticizzato”. Un Paese che sembra così lontano ma che, riflettendoci bene, è tanto vicino a quello attuale.
Fra i numerosi brani indimenticabili spicca quello che descrive lo stupore e la solitudine che prova Luciano nel fare la spesa in un grande supermercato, lui che è stato sempre abituato ai piccoli negozi dove si ha il conto aperto e si conosce bene il proprietario. E poi l’autore ipotizza in maniera davvero irresistibile e satirica un futuro alternativo a quello dove il Paese è fagocitato dal Boom. Un futuro dove prende piede una sorta di “neocristianesimo a sfondo disattivistico e copulatorio” che incredibilmente ricorda molto il pianeta utopico da cui proviene la protagonista nel delizioso “Il pianeta verde” di Coline Serrau.
Fino al 1993, anno in cui esce “Vita agra di un anarchico” di Pino Corrias, Luciano Biancardi è praticamente caduto vergognosamente nell’oblio della cultura italiana. Fra le cause principali ne spiccano due: la morte a soli 49 anni, da attribuire alla sua dipendenza dall’alcol e dal tabacco. Ma, soprattutto e come già ricordato, il suo totale disprezzo per l’establishment editoriale e culturale italiano, così come dei suoi “salotti” più importanti. Evidentemente dotti critici ed esperti hanno ritenuto di dover obliare l’opera e le opinioni di un grande intellettuale italiano libero, sempre contro – purtroppo anche verso se stesso… – i compromessi e le ipocrisie morali.
Da leggere per capire da dove veniamo e, soprattutto, dove andiamo.
Con una scrittura nervosa, di pancia, lo scrittore ci racconta la vita agra e anaffettiva di un traduttore letterario a Milano, città dura e cinica, capace di spegnerlo.
Un buon romanzo, realistico e ancora attuale, un romanzo triste e amaro. Il romanzo di una sconfitta.
Accolto severamente dalla critica dell’epoca, accusato anzi di disfattismo nella sua radicale visione critica del “miracolo economico”, il romanzo contiene brani memorabili che ne fanno indubbiamente un cult. Quello sulla traduzione, ad esempio, quando il giovane Bianciardi (Luciano Bianchi nella versione cinematografica, senza nome invece nel libro) ha a che fare con la vedova Viganò e con la sua ristrettezza mentale. Lo riporto quasi per intero, perché merita:
"...E il sabato le venti cartelline del saggio [di traduzione] erano pronte, così le portai alla signora vedova.
Fu egualmente ferma e materna, quando mi convocò per dirmi che il mio saggio di traduzione non era stato troppo soddisfacente.
"Benedetto figliolo" mi disse. "Ma perché non ha seguito i miei consigli? Le avevo detto, no?, fedeltà al testo. E guardi qua. Dove siamo, dunque?" Sfogliava le mie cartelle tutte corrette a lapis.
"Sì, quel punto dove il capitano invita i suoi uomini all'assalto della trincea nemica. Le sue parole... Sì, ecco. Lei mi traduce: Sotto ragazzi, eccetera. Ora guardi il testo inglese. Dice..." Adesso sfogliava il libro, e trovò la crocetta al margine.
"Il testo dice: Come on boys. Capisce? Lei mi ha invertito il significato. Come on boys vuol dire venite su ragazzi, e così bisogna tradurre. Lei mi mette l'opposto, cioè non su, ma sotto. E ancora, più avanti, dove descrive l'alzabandiera a bordo. Lei ha tradotto, mi pare, i marinai si scoprirono, sì, si scoprirono, ha tradotto lei, mentre il testo inglese diceva: The crew raised their hats. Vede l'inglese come è preciso? La ciurma alzò i loro cappelli. Alzò, capisce, come a salutare la bandiera sul pennone." E con la mano fece anche lei il gesto di chi alza il cappello. Mi provai a dire qualcosa, ma lei m'interruppe.
"Lo so, il risultato è lo stesso, quando uno alza il suo cappello, si scopre, ma allora bisognerebbe precisare che scoperto rimane il suo capo. Dire, non so, che i marinai scoprirono i loro capi, oppure le loro teste, ma così risulterebbe un po'... come dire? ... un po', faticoso." Sorrise.
"Io lo dico sempre ai traduttori: non cercate di inventare, state sempre dietro al testo, che oltre tutto è più facile. La ciurma alzò i loro cappelli, dunque. Lei poi, vede, tende a saltare, a omettere parolette, che invece vanno lasciate, perché hanno la loro importanza. Più avanti, per esempio, lei mi traduce: Gli strinse la mano. Ebbene, l'inglese è più preciso, e dice infatti: He shook his hand, cioè egli strinse, ma più precisamente scosse, la sua mano, o se vuole, meglio ancora, egli scosse la mano di lui." Continuava a sfogliare le mie cartelle.
"Le faccio soltanto degli esempi di correzione, vede? Ci sarebbe ben altro da aggiungere. Qui, per esempio, dove parla dell'offensiva. Lei mi ha tradotto: Cominciò l'offensiva e Patton schierò le sue divisioni. Come traduzione può anche andare, nulla di speciale ma può andare. Però, lo vede?, nello stesso rigo lei così mi mette due o accentate. Cominciò, schierò. Suona male. Meglio dire dunque: Ebbe inizio l'offensiva e Patton schierò. Ha capito?" Io ero ammutolito e feci cenno di sì, poi la vedova sospirò e a voce più alta riprese.
"Locuzioni dialettali. Lei ha questo difetto, le locuzioni dialettali, come tutti i toscani, del resto. Per esempio lei traduce: Bottega di falegname. Bottega è un toscanismo, no?
"Veramente non mi pare," risposi, trovando non so come il coraggio. "Leopardi parla appunto del legnaiuol che veglia nella chiusa bottega... E Leopardi non era toscano."
"Be' be' " fece la vedova. "Leopardi era Leopardi. Lui poteva anche permettersi qualche locuzione dialettale." Mi sorrise ancora: "Vede, ho corretto con un più italiano laboratorio di falegname eccetera. E più avanti, non ricordo bene il punto, ma c'è di mezzo una telefonata... Sì, ecco, è qui. Lei traduce: Pronto, che succede costà? Ora lei vorrà ammettere che costà è una locuzione dialettale, usata solo in Toscana. Infatti l'inglese dice: What's going on there, e va tradotto semplicemente: Che succede là? Non le pare?"
Io ormai tacevo, e forse ero anche rosso di vergogna, sperando solo che la vedova avesse vuotato il sacco e mi permettesse di andare via. "Un'ultima cosa" continuò. "A volte lei appiattisce certi bei modi di dire inglesi. Per esempio qui. Lei dice che i mezzi da sbarco erano le mille miglia lontani dalle coste laziali. Questo suo le mille miglia è assai meno efficace che nel testo inglese, dove si parla di a hell of a distance, cioè di un inferno di distanza. Sente come è bello? I mezzi da sbarco erano a un inferno di distanza eccetera. È molto più robusto, questo inferno di distanza, non le pare?" Capii che mi voleva congedare e mi alzai.
"La traduzione?" farfugliai sulla porta.
"Be', ha visto, no? Vuole un consiglio? Si faccia prima le ossa con qualche editore minore, poi ritorni fra qualche mese, un anno. E si ricordi i miei consigli." "